Room 108

05-08-2009

IANVA

L'aquila con le ali inchiodate

di Michele Viali (foto: Bastian Angerstein @ Shadows-lights.de)

Abbiamo deciso di impostare questo nuovo incontro con Mercy (il precedente fu circa un anno fa, in occasione dell'uscita dell'EP "L'Occidente") in modo assai diverso dalle solite interviste che vengono fatte ai gruppi, sia perché le varie questioni musicali di rito e di presentazione le avevamo già affrontate nella scorsa intervista, sia perché molte altre testate, ora e negli anni passati, hanno dedicato grande attenzione a questo progetto, avendo così scandagliato vari aspetti più o meno prevedibili dell'ensemble genovese. Così abbiamo scelto di porre al pazientissimo nostro ospite domande ad ampio spettro su alcune delle vicende storico-sociali che vengono affrontate in "Italia: Ultimo Atto". Non nego che tale atteggiamento abbia reso più complessa e per alcuni aspetti quasi imprevedibile la nostra chiacchierata virtuale - il che ne fa una lettura tutt'altro che semplice - ma è un modo che, si spera, potrà aggiungere un interesse maggiore e diverso nei confronti di un disco che va ben oltre il mero intrattenimento. A voi la realtà storica al vaglio di Ianva.

• Congratulazioni a tutti voi per questo lavoro che lascia il segno. A parte le prime due domande che vertono su argomenti esclusivamente musicali, ho preferito dare spazio a questioni di natura storico-sociale, visto che il vostro lavoro scuote l'animo anche per i suoni, ma soprattutto per i tanti messaggi che manda e per le molteplici situazioni che va a toccare, se non addirittura a disseppellire, nel passato del nostro paese. A mio dire "Italia: Ultimo Atto" è un album che invita principalmente a pensare, prima che a intrattenere...
  
  
  "Ancora meglio se si riuscisse a ottenere entrambi gli effetti contemporaneamente. Suscitare una riflessione, concedersi una requisitoria e, al contempo, non annoiare era, un tempo, una delle tante arti minori in cui eccelleva l'uomo occidentale. Si pensi, per esempio, alla grande tradizione dei folksinger psichedelici: sfido chiunque a sostenere che gente come Roy Harper, Donovan, Tom Rapp, Mick Softley, solo per citare i primi che mi vengono in mente, non riuscissero a veicolare una forte linea di pensiero mediante un'esposizione musicale fascinosa, brillante, talvolta con quel pizzico di arcano che non guasta mai. Vogliamo parlare del lavoro poderoso che svolse Giorgio Gaber, tanto per restare nei paraggi di casa? L'equazione tra contenuto 'serio' ed esposizione tediosa, musicalmente trasandata, è, comunque, a sua volta roba d'altri tempi, grazie al cielo. Al giorno d'oggi è più facile che i musicisti preferiscano l'intrattenimento puro e semplice per la semplice ragione che non vogliono o non possono permettersi un'opinione. A parte le solite, s'intende."

• In che modo avete diversificato i suoni in fase compositiva rispetto al precedente album "Disobbedisco"? La prima impressione è che ci sia meno enfasi eroica e meno epicità in "Italia: Ultimo Atto", in favore di motivi mediamente più mesti e cupi che trasmettono a tratti il senso di un incubo, seppur adornato da maestose orchestrazioni...
  
  
  "Facile. Cambia l'istantanea storica e, di conseguenza, muta la veste sonora, si diversifica la scelta del linguaggio, si rinnova l'assetto iconografico... Ma non voglio tediare i vostri lettori con l'esposizione di procedure tecniche delle quali, com'è giusto, un ascoltatore ha tutti i diritti di fregarsene. Ciò che importa è che si comprenda che in questo progetto nulla, dicasi nulla, è frutto del caso. Anche la stessa ispirazione, che pure è importante e senza la quale non si va da nessuna parte, viene tenuta costantemente d'occhio, in libertà vigilata, mi verrebbe da dire. Perché? Per la semplice ragione che l'idea che sta a monte di tutta l'operazione continua a pesare di più dell'esigenza di questo o di quel membro di dimostrarsi immaginifico. "Disobbedisco!" è stato un'immersione totale nello spirito del tempo. Una salutare vacanza dello spirito che, incidentalmente, ha coinciso con una fase della mia vita contrassegnata da una sorta di riscossa. Una sortita liberatoria contro una serie di situazioni che, poco alla volta, mi avevano ridotto al punto più basso della mia parabola umana e artistica, se mi passate il termine. Ma da qui a immaginare, come fa certa gente, che io me ne vada in giro a petto in fuori, con virile prognatismo della mascella, a lanciare proclami, stentoreo e dannunziano anche quando parlo con la commessa del banco salumeria della Coop, ce ne passa. In fondo mi divertono certi equivoci. Non fosse altro perché dimostrano la fondatezza di alcuni dei presupposti teorici su cui questo progetto si basa. Ossia l'odierna, assoluta, dipendenza del pensiero dal linguaggio. Se io scrivo un verso come "obbedire all'amore è il novissimo imperativo" e lo canto con piglio deciso, scandendo bene le sillabe, non ci sono dubbi: sto raccogliendo adesioni per una nuova marcia su Roma. Se esprimo lo stesso concetto con un altro verso tipo: "da oggi farò solo ciò che mi dice il cuore" e lo canto con fare indolente, strascicando gli attacchi e spalancando le vocali, allora sono un intellettuale problematico, un figlio del mio tempo e, probabilmente, un compagno. È solo un esempio, ma serve a far capire che le differenze tra "Italia: Ultimo Atto" e "Disobbedisco!" non sono poi così spiccate, se consideriamo solo l'aspetto armonico. Ciò che cambia, invece, è il linguaggio, e questo basta a far percepire all'ascoltatore delle differenze di sostanza che, nella realtà, sono assai modeste. Va da sé: nell'esordio si prendeva in esame una fase della vicenda nazionale fortemente pervasa dal sentimento della 'giovinezza'. L'Italia percepiva sé stessa come la "Gran Proletaria", un popolo d'antichissimo lignaggio, ma la cui recente presa di coscienza di sé configurava come inaspettato esordiente sulla ribalta della storia. Perciò portatore di nuovi valori, di una sobria, virile freschezza di stile, di tratti e di modi. Da contrapporre, si capisce, alla laidezza usuraia, alla decrepitezza borghese delle potenze vincitrici e pugnalatrici alle spalle della nostra giovane, e dunque immacolata, ansia di giustizia. Domanda: quanto e cosa c'era di vero? Altra domanda: anche fosse possibile identificarlo e quantificarlo, servirebbe davvero a una più esatta comprensione degli eventi? Ciò che sappiamo di certo è che quegli eventi furono la logica conseguenza anche di un nuovo linguaggio che, spiovendo dal mondo delle arti e delle avanguardie, a un dato momento, divenne bagaglio acquisito da parte delle forze più arrembanti e vitalistiche della nazione. Linguaggio che ha reso possibile, sia pure in piccolo, rinnovare l'incantamento anche oggi, se è vero, come pare, che in giro c'è gente convinta che la mattina mi sveglio con l'alzabandiera e gli squilli di tromba."

• Quali sono stati i musicisti e gli album che più vi hanno influenzato nel comporre le musiche di "Italia: Ultimo Atto"?
  
  
  "Più o meno le stesse cose del predecessore. Mi piace pensare che in IANVA convivano armonicamente tutte le cose ascoltate, lette, viste e, soprattutto, amate nel corso d'un intera vita. Le musiche appaiono meno enfatiche e trascinanti, ma via via più cupe e vorticose come in una discesa nel maelstrom, in quanto i temi e le parole scelte per narrarli descrivono l'anatomia di un trauma. Il fatto è che non è facile, anche sotto il profilo strettamente musicale, gestire un progetto come il nostro. Quando un gruppo mette a punto uno stile fortemente personalizzato e quando questo stile, inaspettatamente, guadagna qualche consenso fin da subito, iniziano i problemi. Se ti discosti dallo stile iniziale, la gente s'incazza. Se cerchi di riprodurre una copia dell'esordio e licenzi, com'è logico e naturale che sia, una versione sbiadita dell'opera prima, la gente resta delusa. L'unica linea di condotta opportuna è quella di dare ascolto unicamente al proprio istinto e alla propria ispirazione, avendo cura, però, di portare rispetto al proprio pubblico. E per rispetto s'intende dare sempre il massimo, non sgomentarsi se si salta qualche notte di sonno alla ricerca del suono giusto o dei livelli di volume ottimali tra le piste. S'intende non avere la superbia d'imporre loro rovesciamenti di stile stravaganti e incomprensibili. E soprattutto non uscire solo per stare sul mercato, se non si ha qualcosa di serio da dire. Bisogna altresì far capire loro che un'idea fascinosa come poteva essere la tematica fiumana consente, ragionevolmente, un colpo solo. Che noi siamo musicisti e non macchiette e che la ripetizione reiterata d'un solo tema trasformerebbe in macchietta chiunque. Alla fine il modello definitivo a cui tenderemmo, sia pure con tutte le differenze, sono i Laibach. Sono riusciti a creare un immaginario personalissimo all'interno del quale sono sovrani, arbitri e uniche pietre di paragone. Riescono a toccare suggestioni musicali diverse, ma mantengono un corpo centrale inconfondibile, riconoscibile fin dalle prime note. Ecco, questo è un bel modo di fare musica e di veicolare idee. Di divertirsi e, al contempo, dedicarsi a qualcosa di più d'un passatempo. In quest'ottica va vista la nostra consuetudine di realizzare degli EP 'esplorativi'. Credo che ogni volta che usciremo con un full-lenght il 'corpo centrale IANVA' sarà sempre molto ben riconoscibile e, in tal senso, "L'Occidente" si allontanava più da "Disobbedisco!" di quanto abbia poi fatto "Italia: Ultimo Atto". Così potrebbe essere che nel prossimo EP, se decideremo di farlo, magari verrà vagliata qualche altra possibilità sonora che poi entrerà, in misura molto ragionata, nel full-lenght a venire. In fondo in questo progetto trova posto anche una componente ludica che, probabilmente, non risulta evidente all'esterno di esso."

• Cosa vi ha spinti a fare questa ricognizione in musica attraverso l'Italia del dopoguerra? Tutti i temi che avete toccato sono a loro modo attuali e scottanti, inoltre penso che la maggior parte degli italiani non abbia ben in mente tante situazioni che avete ripercorso e riportato alla memoria...
  
  
  "Io credo che la gran parte degli Italiani non abbia ben chiaro neppure ciò che la riguarda direttamente. Il che non è necessariamente un male: il pensare e il 'sentire' è sempre stato un affare di minoranze attive, non dei movimenti di massa. Non esistono liberi movimenti di massa, ma solo uomini liberi. Ezra Pound restava uomo libero anche nella voliera per uccelli in cui lo ficcarono i suoi compatrioti, mentre certi, illustri, fautori della 'liberazione' perenne non riescono neppure a uscire dalle pareti contenitive della loro calotta cranica. In fondo anche il nostro lavoro sulla 'memoria', come lo definisci tu, è roba di poco conto. Chi è libero di temperamento, presto o tardi, fiuta da sé il puzzo di carogna con cui gli tocca convivere. Anche in assenza di istruzioni. Al contrario, esiste una larga percentuale di nostri concittadini ancora sufficientemente acculturati, ancora ragionevolmente orientati al 'bene', ancora moderatamente riflessivi che, per quante prove riesci ad ammassargli davanti, volgono ostinatamente lo sguardo altrove. Lo ripeto per la centesima volta: stiamo vivendo una fase storica molto strana. Non c'è alcuna ragionevole speranza di un cambiamento inducibile attraverso le dinamiche usuali. Ciò che potrebbe davvero portarci fuori, e per sempre, dalla palude attuale non può essere che un generalizzato salto di paradigma. È chiaro che una quota di cittadinanza più accorta e sensibile inizia, confusamente, a subodorarlo. Ed è naturale e comprensibile che se ne ritragga: è come ritrovarsi su un trampolino sospeso su un abisso. Diciamo che le nostre ricognizioni storiche intendono funzionare un po' da training... Si può aver voglia di saltare perché si è dotati di una fede quasi sovrumana, oppure per semplice tedio. Nel mio caso è perché sono sempre più certo che, prima di quanto immaginiamo, potremmo non avere altra scelta. E allora guai ai saltatori inesperti."

"Alla fine il modello definitivo a cui tenderemmo, sia pure con tutte le differenze, sono i Laibach. Sono riusciti a creare un immaginario personalissimo all'interno del quale sono sovrani, arbitri e uniche pietre di paragone. Riescono a toccare suggestioni musicali diverse, ma mantengono un corpo centrale inconfondibile, riconoscibile fin dalle prime note."
(Mercy)

• A mio dire il messaggio finale dell'album va a ricollegarsi al brano "L'Occidente", edito nel precedente EP... si giunge quasi alle stesse conclusioni (l'occidente avviato verso le tenebre), ma ora motivate in maniera più peculiare...
  
  
  "È curioso come, di questi tempi, tutto invecchi maledettamente e subito. Quell'EP non ha neppure due anni, eppure attorno al concetto di Occidente è già avvenuta una mezza rivoluzione copernicana. A stento riesco a ricusare una sensazione di obsolescenza che mi coglie se mi capita di riascoltare quel brano. Intendiamoci, quell'invettiva resta, se non fresca, ugualmente ben motivata. Ciò che è cambiato è, ancora una volta, il linguaggio relativo, ma non le centrali da cui scaturisce. Nell'era Bush-Neocon, per il radicalismo di destra come per le varie sinistre 'antagoniste' l'occidente era il Male, sia pure con differenti declinazioni. L'impero assassino, Zog e via discorrendo. Oggi, anche e soprattutto a sinistra, sembra rifiorita l'idea di occidente come patria elettiva dei diritti. Basterebbe solo avviare una grande stagione riformista e tutto dovrebbe tornare a girare per il verso giusto! Nella realtà dei fatti le cose stanno esattamente come prima. C'è stato un ripensamento strategico ed è stata ri-orientata la percezione collettiva intorno a questi temi, ma le metastasi stanno tutte al loro solito posto e continuano il loro lavoro. Per quanto riguarda il nostro paese, invece, la lettura si fa più ambigua. Innanzitutto urge una domanda: fino a che punto l'Italia può essere considerata Occidente? A quale strano ruolo ci inchioda la nostra condizione geo-politica? Nella title-track emerge un'Italia il cui livello di corruzione e dissoluzione civile ha un respiro quasi metafisico. Ma questa è una percezione del paese che è costante nel tempo, una sorta di "Italia Eterna", così come esiste un concetto di "Comunismo Eterno" o di "Fascismo Eterno". L'Italia Eterna è un'entità contrassegnata dalla spossatezza. Anche per le nazioni, così come per gli individui, stare al mondo da furbastri, alla lunga, stanca. E tuttavia manca sempre il coraggio di rifiutare la vita. Questa vita, intendo."

• Una frase di Pasolini appariva nel vostro precedente EP e apre "Italia: Ultimo Atto", grazie allo spoken-word di Silvestrin. Il pensiero e la figura dell'intellettuale friulano assumono un valore chiave nei vostri due ultimi lavori... e il vostro ricordo in "Piazza Dei Cinquecento", poco prima del suo assassinio, è toccante. Secondo voi quanto Pasolini era stato in grado di intuire la situazione che si sarebbe sviluppata in Italia dopo gli anni '80? Parte del suo pensiero riesce ancora oggi ad incidere in qualche modo? O la sua è diventata solo un'immagine mitica per un gruppo di fanatici?
  
  
  "Beh, non mi pare che, andando in giro, sia poi così frequente d'imbattersi in manipoli di fanatici del Pasolini-pensiero! Piuttosto è singolare un altro aspetto. Ossia che nel rimpianto e nella rimembranza generalizzata dell'intellettuale Pasolini, ogni fazione riesca a trarre ciò che può servire per portare acqua al mulino dei propri argomenti. Argomenti la cui inadeguatezza a comprendere e descrivere i problemi della contemporaneità già trapelava al tempo in cui Pasolini stesso si assunse la responsabilità di metterli all'indice. Per una certa sinistra liberal il Pasolini da ricordare è unicamente il cineasta blasfemo, lo sfrenato dissolutore dionisiaco, l'erotomane aedo di una sorta di (luciferiana) pederastia 'rivoluzionaria'. Uno squallido avatar, a ben pensarci, del radicalismo terminale. Quella stessa parte finge di aver dimenticato che lo stesso uomo era, al contempo, un feroce denigratore della vulgata sessantottina, del radicalismo chic, del permissivismo e della dispersione del sacro che procedevano in quel tempo. Fanno anche finta di dimenticare che l'omosessuale Pasolini non si sarebbe mai abbassato a definirsi 'gay'. Non c'era nulla di gaio nella sua visione dell'omosessualità, tutt'altro, e comunque il suo viverla da greco antico lo avrebbe certamente mosso a disprezzo per coloro che esigono la benedizione delle istituzioni, del sindaco e del parroco. Tuttavia sbagliano anche coloro che immaginano un Pasolini sopravvissuto e riconvertito nelle file di quella certa neo-destra frocio-senile come altri che ben conosciamo. Se Pasolini avesse la sventura di essere ancora vivo e passabilmente lucido, credo che proverebbe orrore per quella che è oggi la destra istituzionale. Risibile parodia della già immonda destra americana. In fondo tutte quelle attribuzioni del fascismo 'popolare' che muovevano Pasolini all'invocare la comprensione, a rinnovare i suoi inviti a non disumanizzare i ragazzi che avevano fatto quella scelta, sono esattamente quelli che l'odierna destra, per 'modernizzarsi', ha rigettato. Mentre ha amplificato grottescamente tutti gli aspetti che trovava odiosi già allora. Una destra che non preserva nulla, non dimostra alcun senso del sacro che non sia piaggeria di facciata al vescovo di turno. Che non ha nulla da ridire, anzi, si arruola con entusiasmo nelle guerre coloniali dei suoi padroni e fa pure finta di credere alle fandonie sulla difesa della libertà. Che è immorale, nel modo più inelegante, crasso e prevedibile. Che emargina le sue teste migliori e promuove mafiosi, zoccole e biscazzieri. Penso al nostro ministro della difesa: i disoccupati meridionali al fronte in Afghanistan e il figlio in yacht con le veline! Cosa sarebbe potuto uscire dalla penna di Pasolini? Se fosse vivo e in sé, oggi, sarebbe emarginato a destra come a sinistra. Su di lui sarebbe caduto l'oblio e, probabilmente, qualche sua sporadica uscita sarebbe bollata come la farneticazione d'un vecchio pazzo. Perché egli aveva compreso, prima di ogni altro, il volto definitivo del mondo che stava irrompendo sulla scena in quel tempo. Aveva intuito da quali centrali prendeva le mosse, in che senso andavano lette le stragi che funestarono il nostro paese, a quale tipo di società saremmo pervenuti. Pasolini venne assassinato perché denunciò scopi e strategie, fece intuire nomi eccellenti e diede a intendere che non si sarebbe fermato. Personalmente non lo considero solo una grande figura tragica, di quelle che muovono a istintiva empatia, ma anche la vittima simbolica che comprende e conclude in sé l'epopea intellettuale del '900 italiano. Se pensiamo che le due più alte figure intellettuali del secolo, Gentile e Gramsci, pagarono con la vita la forza del loro pensiero e il loro coinvolgimento, su fronti contrapposti, a quel sulfureo e febbrile laboratorio politico che fu l'Italia del secolo scorso, comprenderemo il senso finale della morte di Pasolini. Strenuo e caparbio difensore delle nostre specificità, fino al punto da racchiudere in sé, senza timore d'essere contraddittorio, spinte ideologiche contrapposte, ma funzionali all'idea di popolo da lui vagheggiata, egli finirà ultima, eccellente, vittima di guerra in tempo di pace. Ma anche prima vittima in tempo di pace di una guerra occulta che stava iniziando. Quella dei grandi potentati economici contro i popoli, in quanto tali. Del resto, il mandante primo dell'omicidio di Pasolini ha oggi, ufficiosamente, un nome. In ambiti 'alti' tutti lo sanno, ma si guardano bene dal dirlo, a destra, a sinistra e al centro. Questo perché il grande progetto che Pasolini subodorò e tentò disperatamente di denunciare è andato in porto e oggi ci siamo dentro fino al collo."

• La descrizione della figura del ribelle in "Negli Occhi D'Un Ribelle" è mirabile. Quali immagini di ribelli dovremmo riportare alla memoria in questo sanguinoso e infinito dopoguerra italiano?
  
  
  "Il vero ribelle di solito resta anonimo o viene rapidamente dimenticato. In generale possiamo dire che il modulo aureo del ribelle è quello tratteggiato da Junger. Ma, nel mondo degli uomini in carne e ossa, egli può connotarsi anche molto diversamente. In linea di massima il ribelle è un anarcoide, poiché diffida della capacità umana di esprimere gerarchie meritevoli. E tuttavia tiene in qualche dispregio coloro i quali intendono la libertà come semplice facoltà di vivere a proprio gusto e comodo. A differenza del rivoluzionario che, muovendo da un'ideologia, si sente investito da una missione di respiro universale, il ribelle ha cara sopra ogni altra cosa la gente del suo 'villaggio'. In questo senso il Mullah Omar è un perfetto ribelle, anche se il suo concetto di libertà può risultare incomprensibile a noi. Emma Bonino, invece, che vorrebbe imporre con le buone o con le cattive, anche nel villaggio del Mullah Omar, l'aborto indiscriminato, l'eutanasia anche per i malati di herpes, il liberalismo all'americana con le sue banche zeppe di derivati e titoli tossici, ha mantenuto, malgrado la vecchiezza, una forma mentis 'rivoluzionaria'. È abbastanza facile capire che, nella guerra civile italiana, altrimenti detta di liberazione, temperamenti ribelli e temperamenti 'rivoluzionari' finirono a ingrossare indifferentemente entrambe le file. Tuttavia la categoria del ribelle è peculiare di popoli che si sono sempre messi in luce per indocilità, fierezza e spirito d'indipendenza. Sarà per questo, forse, che qui da noi sono merce tanto rara. Comunque, siccome mi hai chiesto di fare dei nomi, mi adeguo con la riserva di citarne solo alcuni del tempo di pace: Malaparte, Buzzati, Grisi, Berto, Flaiano oltre, naturalmente, Pasolini. Poi Marco Tarchi e Armando Plebe. De André e Gaber, sia pure con diversi esiti. Gian Maria Volonté. A modo suo Zeffirelli. Massimo Fini ce la sta mettendo tutta, a costo di qualche scivolone. Costanzo Preve esprime un pensiero molto complesso, ma intrinsecamente ribelle. Ma il più simpatico in assoluto è stato... Gigi Meroni."

• Alla fine dell'album le uniche figure che si salvano sembrano essere proprio quelle dei ribelli, ad iniziare da Pasolini... il ribelle è l'unico profilo positivo tuttora possibile?
  
  
  "Certo che no. L'amministratore pubblico che non concepisce il proprio ruolo solo come un crocevia di interessi privati dovrebbe essere la normalità, invece è una figura esemplare. Il magistrato che è mosso da alto senso di giustizia e non dall'intento di contendere quote di potere ad altri poteri è addirittura eroico. Il giornalista che decide di mettersi al servizio della verità e viene relegato ai margini dell'apparato informativo, e in Italia ce ne sono, merita un solenne encomio. Il cittadino che non cede al torpore mortale che risulta dal vivere il semplice quotidiano in questo sistema assurdo merita un monumento. Ma senza un qualcosa che crei e organizzi l'adesione di tutti a un progetto più alto, tutte queste esperienze hanno tutt'al più il valore di una testimonianza, ma non altro oltre a questo. Ma dopotutto anche quella del ribelle è una missione di testimonianza, solo con il valore aggiunto di una specificità non comune che trova il suo compimento nell'azione. Ribelli comincio a temere che si nasca. Certo non lo si diventa a una scuola delle Frattocchie o in un training center berluscoide."

"Non esistono liberi movimenti di massa, ma solo uomini liberi. Ezra Pound restava uomo libero anche nella voliera per uccelli in cui lo ficcarono i suoi compatrioti mentre certi, illustri, fautori della 'liberazione' perenne non riescono neppure a uscire dalle pareti contenitive della loro calotta cranica."
(Mercy)

• Avete dedicato il brano "Bora" alla questione foibe, fatto orribile taciuto per decenni, ma stranamente 'scoperto' dai mass-media negli ultimi anni. Pensate che lo spazio che gli si sta dedicando adesso possa essere frutto di una strumentalizzazione?
  
  
  "Se non lo è oggi, lo sarà domani. I morti tornano sempre utili prima o poi. Del resto la federazione jugoslava è morta e sepolta, il comunismo è finito dallo sfasciacarrozze. In questi anni si è difesa più che altro l'immagine di certi, solenni, padri della repubblica, qualcuno dei quali è ancora tra noi. Gente che, all'epoca, non solo tacque, ma collaborò esplicitamente con i titini per far ammazzare quanti più italiani possibile. Nel dopoguerra, poi, fecero tutto quello che era nelle loro forze per rendere la vita dura, anzi durissima, ai profughi giuliano-dalmati riparati in Italia. Sollevare la questione foibe sarebbe equivalso a una chiamata a correità nei confronti di figure che, nel frattempo, erano diventate dei pilastri istituzionali. A chi conveniva? A nessuno. Il fatto che la verità sia sacra non implica necessariamente che essa sia anche imprescindibile. Quando si affrontano simili argomenti, in Italia, occorre sempre partire da un punto fermo: ossia che tutte le forze scaturite dal blocco antifascista hanno condiviso la prassi della negazione della memoria. Questo allo scopo di negare la sostanza di una sconfitta e accreditare, all'opposto, l'immagine di una vittoria conseguita grazie al ravvedimento di massa che ci avrebbe portato, in tempo utile, a vincere con gli anglo-americani quella stessa guerra che avevamo già perso con i tedeschi. È per questa ragione che, a distanza di oltre sessant'anni, una simile tragedia continua ad essere esclusa dalla coscienza collettiva della nazione e che, se emerge, è solo per essere oggetto di polemiche e di contrapposte strumentalizzazioni, proprio come notavi tu. Ma c'è anche un'altra verità, quasi indicibile, in effetti. La strage che molti vorrebbero solo come episodio bellico, doloroso sì, ma inevitabile, in realtà conobbe il suo culmine a guerra già finita e si prolungò fino al '47. In particolare nel maggio-giugno del '45, quando le forze partigiane titoiste occuparono Trieste e stabilirono su tutto il territorio proprie autorità amministrative. Alla base c'era il progetto politico del nazionalcomunismo jugoslavo che voleva annettere alla federazione tutto il territorio giuliano sino alla linea dell'Isonzo. Il rastrellamento e l'eliminazione di tanti nostri connazionali non fu, come si vuol far credere, un incidente di percorso nell'ambito del grande fronte internazionale di lotta al nazi-fascismo, ma bensì un'operazione di pulizia etnica esplicitata in forma lucida e precisa. Di fatto, uno dei partiti che guidava la coalizione che diede all'Italia lo statuto costituzionale, che si poneva come una delle principali forze fondanti della repubblica a venire, il partito comunista, avallò esplicitamente, con il famoso documento di Bari dell'autunno '44, la cessione di una quota rilevante di territorio nazionale ai 'compagni' jugoslavi, con tutto il corollario di pulizia etnica a seguire. Credo che nella storia del mondo non si sia mai dato un caso come questo e non mi meraviglia che, in tempi di poco successivi, sia entrata in vigore l'interdizione assoluta di parlarne."

• Il fatto che la questione foibe sia stata oscurata anche in molti libri di storia farebbe pensare ad un'inattendibilità totale e ad una manipolazione anche nella formazione delle menti più tenere... in barba all'informazione, alla libertà e alla cosiddetta democrazia...
  
  
  "La democrazia, l'informazione e via discorrendo c'entrano poco o nulla. Semplicemente nell'Italia del dopoguerra c'era stata un'esplicita spartizione tra le varie forze che avevano concorso al blocco anti-fascista nel biennio '43-'45. Ai democristiani gli apparati dello stato, le massime cariche istituzionali, i ministeri chiave, le grandi aziende di stato, i servizi e i lavori pubblici, etc. Alla componente laico-azionista il settore finanziario, bancario, le sottosegreterie e le commissioni correlate a ministeri di bilancio, etc. Ai comunisti il settore della cultura, dell'istruzione, gran parte di quello della comunicazione, le Università, gli istituti di ricerca, l'egemonia sindacale, nonché il controllo pressoché totale di ampie aree di territorio a livello di governatorato locale. In pratica il sofisticato sistema di pesi e contrappesi che i costituenti misero a punto nel delineare la carta costituzionale si rifletteva, con tutti i limiti che la realtà oggettiva imponeva, nell'ordinamento effettivo del Paese. Va da sé che da parte comunista venne adottata ogni possibile precauzione affinché fossero taciute o enormemente sotto-stimate le responsabilità storiche delle forze armate comuniste, regolari e irregolari, in merito a episodi, numerosi, diffusi, in odore di sistematicità, di eliminazione totale di prigionieri militari e civili. Questo richiederebbe l'apertura di un discorso lungo, e non è il caso. Diciamo che la logica del periodo, sotto il segno di Yalta, la particolare delicatezza della situazione italiana, del tutto anomala rispetto ad altri paesi del blocco occidentale, probabilmente, li mise nella condizione di non poter fare altrimenti. L'Italia è stata a lungo una polveriera da cui, teoricamente, sarebbe potuta partire una destabilizzazione planetaria. Era nell'interesse di tutti far dimenticare quegli eventi. La ragione era semplice: tutti gli attori in campo avevano interesse che il PCI apparisse quanto più possibile organico alla democrazia parlamentare, in luogo di eterna opposizione, ma con governo sostanziale di vasti settori del paese reale. Contenimento reciproco: i comunisti più consapevoli delle implicazioni geopolitiche della situazione contenevano le spinte massimaliste e rivoluzionarie di una parte della loro base, convogliandole verso una richiesta di riforme e di progresso sociale. I democristiani tenevano a freno le spinte reazionarie della parte più conservatrice e retriva del paese, comunque preoccupata, non del tutto a torto, della possibilità di un sorpasso comunista. Pesi e contrappesi. Le migliaia di nostri compatrioti morti erano come un corpo estraneo che ostacolava il movimento della carrucola. Triste, ma vero. E, aggiungo, nella logica dei tempi, tragicamente comprensibile.Meno comprensibili sono certi spiritati e auto-proclamati eredi dei partigiani che, oggi, tra uno spinello e una zompata ska, trovano il tempo di dichiarare cose tipo: "foibe: nessun rimorso". Questi sarebbero i nuovi combattenti della libertà? Andiamo bene! Datemi una galera: mi sento più al sicuro lì che con loro! Ancora meno comprensibili certi post-comunisti, ora diventati cosa? Boh! Sarebbero pronti a farci consegnare nelle mani di Goldman-Sachs anche la catenina della prima comunione, ma su certi temi, continuano sulla stessa falsariga dei loro padri e nonni: non ne parlano o, se ne parlano, è per dare del revisionista, e dunque del fascista, a chi lo fa loro notare."

• Pace e tempesta, paradiso e inferno sono in parallelo in "L'Estate Dei Silenzi", brano estatico in cui vengono accostate la vita e la morte... quanto credete che i nostri concittadini siano coscienti al giorno d'oggi dell'orrore di quelle stragi e di chi - impunito - ne ha le colpe? Credi che quelle ecatombi abbiano insegnato qualcosa all'Italia dei nostri giorni?
  
  
  "Sì, ma qui porrei una precisazione a beneficio dei lettori, ammesso che qualcuno si sia spinto a leggere fin qui. Sentir definire 'estatico' un brano che tratta di orribili stragi rimaste impunite, anche se per Bologna una risibile sentenza c'è stata, potrebbe far pensare che noi siamo usi bearci di simili scenari! In verità l'incedere è onirico, in quanto la messa a fuoco di quell'estate avviene attraverso la lente del ricordo personale. Un ricordo molto lontano nel tempo, immerso in quella strana luce che è propria delle memorie dell'infanzia o della primissima giovinezza. In verità è un pezzo molto intimo e non mi aspetto che possa fare più di tanto sfracelli. Comunque, per rispondere alla tua domanda, mi sento di affermare che i cittadini, in linea di massima, non sono coscienti d'un cazzo. Ma vorrei ben vedere il contrario! Sono passati 40 anni da Piazza Fontana, quasi 30 dall'estate in questione e ancora non è emerso uno straccio di verità plausibile. Nel frattempo un'intera popolazione, che a quel tempo non era ancora nata, si è fatta adulta e oggi ha altre gatte da pelare tra crisi economica, precariato, disoccupazione, crisi relazionali e quant'altro. Per coloro che ricordano, invece, è subentrato una sorta di fatalismo per il quale certi eventi non sembrano neppure più ascrivibili a responsabilità e a logiche umane, per quanto aberranti possano essere. Pare piuttosto siano scaturiti da qualche sfera luminosa; da una tenebra ineffabile che tutto pervade e tutto comprende e per la quale non esistono neppure termini per nominarla! È una sensazione talmente netta e diffusa da far sorgere il sospetto che questa sia esattamente la percezione che questa entità vuole dare di sé. Non potrebbe essere questo l'insegnamento? Cosa c'è di così radicale, definitivo, fondante in quelle verità? Tale da doverle tenacemente occultare ancora oggi e, presumibilmente, per sempre? Forse qualcosa di lontanamente simile a una risposta è ricavabile dalla domanda stessa."

• C'è una critica non indifferente verso i 'liberatori' che hanno devastato Genova nell'autunno del '42, uno dei tanti fatti su cui non è stata fatta mai luce. Secondo voi quei bombardamenti hanno portato a una liberazione? E da cosa? I 'liberatori' sono ancora qui tra noi, se non sbaglio, armati fino ai denti a 'difenderci' da non so quale minaccia...
  
  
  "Domanda un po' strana, questa. Che dovrei dire? Che avrebbero dovuto lanciarci confetti? Da che mondo è mondo le guerre si fanno per vincerle. Le armi si fabbricano per usarle. E il solo uso che se ne possa fare è quello di ammazzare della gente; non servono davvero a nient'altro che a quello. Certo: quel modo di fare la guerra, la strage indiscriminata di civili, la distruzione sistematica di ogni struttura che possa assicurare un livello minimo di sussistenza della popolazione non belligerante ha funzionato così bene che, da allora, è diventato il marchio di fabbrica di tutte le crociate 'democratiche'. Detto ciò, però, cerchiamo di non mistificare altre realtà non meno meschine. Per esempio: a noi, la guerra, chi ce l'ha fatta fare? Al di là di tutte le considerazioni resta l'evidenza assoluta di un dato. Cioè che l'entrata dell'Italia in guerra fu cagionata da un grossolano errore di valutazione: quello di Mussolini che, confidando nell'invincibilità dell'alleato tedesco, teneva ad avere quel qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative che, nella sua visione, non sarebbero tardate. E qui ci sarebbe molto da imparare su noi stessi. Su noi Italiani, intendo. C'è tutto il nostro pressappochismo, tutto il nostro confidare nello stellone, tutta la sicumera di riporre sconfinata fiducia nelle nostre doti di improvvisatori e di furbastri. Dire che i nostri soldati vennero spediti al fronte armati di moschetto modello 91, forse, non rende buon servizio alla verità: non tutti sanno di cose militari e di balistica. Il moschetto 91 si chiamava così per il semplice fatto che venne brevettato e introdotto nel 1891! Mal funzionò già ad Adua ed era vetusto e sorpassato all'epoca della Grande Guerra! Ora: dopo un intero ventennio intriso di spirito marziale, gli otto milioni di baionette, i sabati fascisti dove anche gli infanti e i commendatori con la gotta dovevano dare prova di pugnace efficienza, il destino imperiale e quant'altro, qual era, alla prova dei fatti, l'esito di tutto ciò? Entrare in guerra armati di catorci vecchi di mezzo secolo ed equipaggiati di fasce mollettiere e scarpe di cartone pressato residuate della prima guerra! Contro, nota bene, dei colossi, a quel punto anche tecnologici, come l'Impero Britannico, gli USA che, nella guerra, si giocavano la loro chance di uscire una volta per tutte dalla crisi economica rilanciando un'industria pesante che noi potevamo solo sognare. Contro l'Unione Sovietica che, oltre a un territorio di per sé inespugnabile, poteva gettare in campo decine di milioni di armati... Queste considerazioni erano alla portata del più dilettantesco degli analisti strategici e, d'altronde, non è che da noi siano mai mancate le teste fini. Peccato però che, al momento del dunque, ai posti chiave si ritrovino sempre le nullità, gli yes-men, quelli che sono lì perché sono compari, parenti, cognati, nipoti, amanti... Insomma, l'Italia si getta nel più titanico e distruttivo scontro di forze dell'intera storia umana armata solo della propria insopprimibile... italianità. E qui viene il bello. Finché l'allucinazione collettiva che ha portato, per un periodo, gli Italiani a credersi una potenza militare non viene polverizzata dalla cruda realtà dei fatti, la prospettiva di un nuovo conflitto non incontra un malcontento degno di nota. Gli Italiani sono strani: si consegnano a corpo morto nelle mani dei loro demagoghi in cambio di poco. Anche di molto meno di quanto Mussolini, in effetti, realizzò. Ma da qui a parlare di consenso, in senso pieno e compiuto, ci andrei cauto. Etimologicamente consenso significa 'sentire insieme' e, dunque, implica un'adesione volontaria e consapevole. Ritengo invece molto più verosimile che anche in quel frangente, come del resto in ogni momento della sua storia, un grande corpo centrale, indifferenziato, una grande 'zona grigia' della società italiana, si sia accontentato di vivacchiare senza esporsi, nell'evidente aspettativa di una guerra breve e quasi indolore. Ma, a fronte delle prime sconfitte, delle massicce incursioni aeree sul territorio, il 'consenso' al regime precipitò con un'accelerazione impressionante, tanto da lasciare interdetti gli stessi analisti alleati. E a quel punto, secondo l'antico schema psicologico del suddito, l'italiano medio riversa sull'uomo nelle cui mani s'è consegnato acriticamente, un'avversione intrisa di rancore e disprezzo. Ciò, comunque, non cancella l'atteggiamento immondo di molti nostri connazionali al momento del crollo, monarchia in testa. E poi, guarda, gli afghani, gli iracheni, per quanto occupati e con le pezze al culo, non portano le mogli e le figlie all'occupante in cambio di due scatolette. Da noi questo è stato il minimo. A Napoli, certe madri affittavano bambini di 5, 6 anni alla soldataglia maghrebina. Non c'è fame che possa giustificare una cosa del genere, mi spiace. Un popolo, toccati certi fondi, non può certo poi esigere che 'i liberatori', esaurito il compito, se ne tornino a casa loro e amici come prima. Non funziona così. L'Italia è una colonia, ma non credo abbia la statura per essere nulla più di quello. Oltretutto non mi pare che ciò costituisca un cruccio per la grande maggioranza dei nostri compatrioti."

• Nel corso dell'album vi siete soffermati anche sugli scontri di piazza iniziati alla fine degli anni '60 e proseguiti incessantemente fino alla seconda metà degli anni '70... molti celebrano quel periodo, lo rievocano, ma lo criticano anche... Ci furono parecchi morti, gente che credeva in qualcosa, altra che non credeva in nulla ma prendeva parte ai 'giochi', oscure manipolazioni, movimenti operai ora impensabili... cosa rimane per voi di quei tempi? Quali cambiamenti hanno portato, al di là del costume?
  
  
  "Questo è il tema di certi saggi da 800 e rotte pagine! Come posso rispondere esaurientemente io, in questo contesto? Del resto anche per le altre questioni che tu sollevi è arduo trovare una sintesi che non sia una versione impoverita e banalizzata di concetti già espressi altrove. Proviamoci partendo dal fondo. Interrogarsi sul concetto di cambiamento prescindendo dalla dimensione del costume significa, di fatto, non essere interessati a trovare una risposta. In epoche di storia a 'bassa intensità' è proprio nell'analisi dei fenomeni che riguardano il costume che si riescono a isolare le germinazioni più significative. In quell'epoca, in tutto e per tutto pre-globale, immersa nella logica dei blocchi contrapposti e senza alcun serio indizio che la situazione potesse evolvere verso altri possibili scenari, la contestazione si pretendeva generalizzata e si autodefiniva globale. Ma dopo una primissima fiammata planetaria i movimenti iniziarono a perseguire differenti declinazioni di questa generale domanda di cambiamento. A ogni realtà statale corrispondeva uno speculare adeguamento della primitiva istanza 'sovversiva'. Di fatto, già agli albori dei '70, in tutto il mondo occidentale, con rare eccezioni, i movimenti avevano virato verso forme di radicalismo tutto sommato innocuo. Quando non funzionale al progetto di grande occidente atlantico. Una sorta di partito riformista di massa che privilegiava come terreno di scontro proprio la sfera del costume, del diritto privato, dei principi piuttosto che la materia pesante dell'economia politica. Unica eccezione: l'Italia. Su di essa, infatti, pesava il sempiterno stato di eccezione ereditato direttamente dagli equilibri scaturiti dal biennio '43-'45. La strategia della tensione sarà l'inevitabile corollario. Ragioniamo: un paese che occupa, geopoliticamente, una posizione di 'cerniera' tra due blocchi planetari in stato di guerra fredda e che, per di più, è una delle chiavi di accesso per quello scacchiere degli scacchieri che è il medioriente. Aggiungiamo che, sotto il profilo fisico, la penisola è una sorta di grande portaerei naturale, nonché un immenso molo per flottiglia navale di pronto intervento nell'area. Ora, cosa può accadere se un paese tanto cruciale per le geo-strategie atlantiche ospita il più forte partito comunista d'occidente? Un partito scaturito dalla terza internazionale, formalmente membro del Comintern e, dunque, legato a doppio filo con il Cremlino? Per di più incalzato da sinistra da una pletora di sigle apertamente rivoluzionarie di ispirazione maoista, guevarista, trotzskista, marxista-leninista? Se, per pura ipotesi, dall'unione di tutte queste forze fosse scaturita una maggioranza parlamentare si sarebbe verificato tecnicamente ciò che era inammissibile alla luce della realpolitik. Te lo immagini? Il ministro degli interni d'un paese cruciale per la NATO, quindi a conoscenza di tutti i segreti militari, con potere di disporre delle forze armate, con la facoltà di esprimere l'ultima parola in merito ai servizi d'intelligence, che risponde direttamente al cuore strategico del blocco ostile? È ovvio che questo scenario andava scongiurato con tutti i mezzi possibili. È altrettanto ovvio che tutte le formazioni politiche che potevano essere cooptate in funzione anti-comunista vennero arruolate. In pratica torna a manifestarsi lo spirito della guerra civile, questa volta a bassa intensità, ma non per questo meno letale. Bisogna aggiungere che in quel tempo la sinistra era incredibilmente aggressiva: a scuola, negli atenei, in fabbrica, nelle redazioni dei giornali, nei quartieri si viveva uno stato di tensione e di mobilitazione permanente. Malgrado il PCI tentasse di convogliare, attraverso il sindacato, l'onda di mobilitazione verso forme di rivendicazione in gran parte condivisibili, quando non ineludibili, la marea montante del massimalismo giovanile imponeva la propria linea d'azione diretta. Ciò significava, per chi era di destra, o magari non di sinistra, o anche solo semplicemente per chi non lo sembrava a colpo d'occhio, rischiare quotidianamente la pelle. A destra le cose stavano diversamente, ma la sostanza non cambiava. Numericamente molto più esigui, divorati dalla frustrazione e dal rancore per l'essere stati pervicacemente considerati non-persone, esposti al generale ludibrio, i giovani fascisti diverranno facile unità di manovra da parte dei servizi atlantici e delle forze più oscure del paese. A quel punto essi assumono la valenza d'una carta moschicida in grado di attrarre avventuristi d'ogni tipo, provocatori di professione, infiltrati per conto di varie organizzazioni civili e militari e, non ultima, una marea di giovanissimi agiati, arroccati in difesa delle rendite famigliari e dei privilegi di censo. Di fatto il neofascismo del 1970 era di gran lunga più reazionario, retrivo e anti-popolare di quanto non lo fosse nel 1921, sia pure con le eccezioni del caso. Aggressivo al punto di colmare parzialmente lo svantaggio numerico con la determinazione e l'addestramento sistematico alla violenza. Alla fine di questa fase, durata oltre un decennio, le conseguenze sul tessuto morale e civile della nazione saranno devastanti."

• Vale ancora la pena, nella società di oggi, morire per un ideale?
  
  
  "Ma non diciamo cazzate! Cerchiamo di vivere da persone per bene, piuttosto. Anche per quello, dopotutto, occorre un discreto eroismo. Un eroismo orizzontale, direi."

• Avete rilevato un leitmotiv (se così possiamo definirlo) importante in tutto il dopoguerra, quello delle lotte fratricide, sorta di guerre civili in cui non è in gioco il potere... Dagli scontri tra partigiani e fascisti, passando alla caccia al fascista dell'immediato dopoguerra (in cui ci ha rimesso la vita anche Luisa Ferida), fino agli scontri del '68... sembra di assistere ad un'infinita "Stagione Di Caino"... Che ruolo ha avuto tutto questo nell'annullamento culturale e sociale a cui siamo arrivati adesso?
  
  
  "Ha avuto un ruolo che descriverei come un tridente. Una punta ha definitivamente scalzato dalla coscienza collettiva l'idea di nazione come valore condiviso, come di un qualcosa che vada puntualmente riconfermato mediante quote crescenti di responsabilità e dignità da parte di tutti. Una seconda ha reso impraticabile per l'eternità la possibilità, anche solo teorica, di riporre anche un solo briciolo di fiducia nelle istituzioni, giustizia in testa. La terza, la centrale e più letale di tutte, ha prodotto una cesura definitiva nella psicologia di massa, rendendo definitivo un tratto ideologico che, normalmente, è provvisorio: il manicheismo, la negazione a priori di ogni dignità umana al 'nemico' che è peculiare delle guerre civili. Nel cervello di molti italiani questo status mentale è diventato un tratto costitutivo del loro stare al mondo. Abbiamo avuto in ordine di apparizione: l'antifascismo contro il fascismo; debellato quest'ultimo, l'antifascismo comunista contro tutti gli altri antifascismi accusati di essere, in realtà, fascisti. Poi, per almeno un quindicennio, chiunque dissentisse, anche molto cautamente, da quella vulgata a base di marxismo basic, maoismo carabattola, freudismo da quattro lire, pedagogismo visionario e femminismo tagliato con l'accetta era, guarda un po', fascista. Il riformismo invocato dall'area migliorista del PCI? Fascista. Il compromesso storico siglato Moro-Berlinguer? Una mossa al servizio della borghesia rimasta, in fondo, fascista. La stagione del Craxismo? Una chiara eredità del decisionismo fascista... Si potrebbe continuare per una settimana fino ad arrivare all'altro ieri o a poche ore fa. Il senso mi pare chiaro: l'invocare costantemente a tutela delle proprie posizioni, per sancirne la presunta indiscutibilità, l'idea che l'avversario sia 'il male assoluto', da strategia che era in origine, infida quanto si vuole, ma, in fondo, motivata dai tempi e dalle poste in gioco, si è trasformata nel tempo in qualcosa di diverso. Dapprima uno scarto sbrigativo: la rivoluzione sembrava imminente, l'esito scontato e, dunque, ci si sentiva tutti figli di Saint Just. Poi è diventata una semplificazione oratoria, poi un tic mentale, poi un riflesso condizionato, oggi è ancora qualcos'altro. Ossia un modo per non ammettere che la contemporaneità è enormemente complessa. Che decenni di facili manicheismi, di mode ideologiche imposte in tutti i campi del sociale, dalla scuola alla giustizia, al diritto privato, hanno prodotto, di per contro, cervelli desolatamente elementari. E, di conseguenza, azioni, linguaggi, analisi e soluzioni prospettate che risultano ridicolmente inadeguate. L'ultimo quindicennio di storia italiana è esemplare, in tal senso. Abbiamo la perenne lettura duale: berlusconismo e antiberlusconismo. Abbiamo la reciproca demonizzazione e delegittimazione dell'avversario. Abbiamo il rictus di incarnare con zelo tutti i peggiori stereotipi che l'avversario ci rinfaccia scambiandoli per 'irrinunciabile patrimonio culturale'. La tendenza a farsi vassalli di poteri esteri pur di prevalere sul nemico interno. Coltiviamo l'illusione di poter continuare a stare al mondo così: servitori di più padroni, senza cultura, senza riflessione, senza coscienza civile, senza competenze, senza responsabilità... L'importante è fermare il fascismo, arginare il comunismo, accoltellare il tifoso della curva opposta, insultare lo sbirro, pestare chi ci taglia la strada in macchina... Siamo un paese da ritardo mentale. E tutti, dico tutti, abbiamo le nostre responsabilità in questo senso. Ma almeno alcuni non si credono i meglio fichi del bigoncio: è già qualcosa."

• I magheggi del potere serpeggiano oscuri in tutte le tracce del disco, attraversando l'intero dopoguerra... come credi che si sia evoluto il potere durante questi 70 anni? C'è ancora la medesima attitudine nel gestire le cose, o siamo andati peggiorando? L'organizzazione più 'tenebrosa' di stampo massonico sembra essere stata debellata...
  
  
  "Se alludi alla P2 non sono poi così certo che sia stata debellata come dici. Il grosso degli elenchi non è mai venuto alla luce. Gelli vive indisturbato a casa sua. Confratelli che stavano nella stampa e in TV, se ancora vivi, ce li trovi tutt'ora. Di tutti i militari coinvolti nessuno ha subito un processo, nessuno ha perso un grado. Chi un processo l'ha subito è stato in relazione ad altri fatti, ma è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. I filoni d'indagine riguardanti le ipotesi di coinvolgimento nello stragismo degli anni '70 si sono attorcigliati su loro stessi. L'Italia di oggi non mi pare poi così lontana da quella vagheggiata dal 'Venerabile' nel suo "piano di rinascita democratica". Boh! Vedi un po' tu... Per il resto non posso dirti molto di più: non sono mai stato contiguo ai poteri e certe evoluzioni le posso solo intuire, semmai. Coglierne gli effetti nel sociale, nei mutamenti di linguaggio che intervengono nella macro-comunicazione, in certi eventi di cronaca su cui i media si soffermano più del dovuto... Ciò che è certo è che il nostro paese è sempre stato tenuto al guinzaglio dalla massoneria e, attraverso questa, dagli inglesi prima e dagli americani poi, per quanto l'influenza britannica sia ancora piuttosto forte, certo più di quanto quel rottame di paese meriti di esercitare oggi. Sfido io: la stessa unità d'Italia è stata esclusivo affare di logge massoniche con dietro la grande casa madre d'Inghilterra e i capitali dell'Impero Britannico. Gli Italiani di allora, nella quasi totalità, non avevano neppure una vaga nozione del paese come entità statale a sé. Secoli di papato, di monarchie assolute, di piccoli dispotismi locali sotto l'ala di poteri più vasti, sempre stranieri, avevano determinato una mentalità corrente di tipo servile. Pensare, però, come fanno certi, e il web è il mare in cui questi pesci sguazzano, che in Italia spadroneggi una loggia super segreta, antica come il mondo, dedita a cerimonie oscure e terribili e coinvolta praticamente in tutto, dalla strage di Piazza Fontana a Cogne, dalla Uno Bianca a Ustica fino a Novi Ligure, è, come dire, una tentazione letteraria. Quello che c'era, e forse ancora c'è, non arriva da Atlantide né risale ai Templari, ma è il risultato di un progetto CIA messo in cantiere intorno alla fine degli anni '50 e diventato operativo nel nostro paese, credo, nel 1962. Un progetto che nasceva da uno studio commissionato dall'OSS, nel primo dopoguerra, a uno stuolo di esperti delle maggiori università americane. Credo che anche la P2 non sia stata altro, per una certa fase, che un ramo periferico e semi-autonomo di questo progetto, con Gelli subentrato come plenipotenziario su mandato di una figura istituzionale molto potente. All'origine la funzione era, tanto per cambiare, in chiave anti-comunista, ma anche, in seguito, anti-cattolica. Il mezzo: inventarsi una sorta di nuova religione per le classi dirigenti, una dottrina segreta per i potenti 'veri'. Da questo punto in poi, però, non sono in grado di dire nulla che non sia una delle tante ipotesi. Di certo in questo paese sì è fatta parecchia ingegneria sociale, anche manipolando paure e desideri molto primordiali."

"A differenza del rivoluzionario che, muovendo da un'ideologia, si sente investito da una missione di respiro universale, il ribelle ha cara sopra ogni altra cosa la gente del suo 'villaggio'. In questo senso il Mullah Omar è un perfetto ribelle, anche se il suo concetto di libertà può risultare incomprensibile a noi."
(Mercy)

• Secondo voi vivere in uno "stato ideale tra i muri della propria stanza" è l'unico modo per affrontare l'attuale disintegrazione culturale e sociale in questa ipocrita "dittatura del sorriso"? Dobbiamo ormai soltanto "invocare il sipario" o c'è ancora qualcosa in cui credere o per cui agire?
  
  
  "Non mi spingo a prescrivere la mia sociopatia, semmai la descrivo. Ma è indubbio che non stiano emergendo elaborazioni degne di nota, progetti alla cui chiamata dia un qualche ripensamento il sottrarsi. Intendiamoci: non mancherebbero gli spunti, ma è evidente che mancano gli uomini. Non si possono produrre azioni se nessuno è più in grado di formulare un pensiero che stia all'origine di queste."

• Ci si riempie spesso la bocca con la parola 'libertà' o con l'ambigua definizione di 'democrazia', giusto per far capire che la nostra società è quella migliore, quella giusta, dove tutto si può fare... Cosa significa per voi 'libertà'? E quale valore ha effettivamente assunto oggigiorno in questa realtà degradata?
  
  
  "Una bazzecola di domanda! Racchiude appena 2500 anni di dispute in seno al pensiero occidentale, e ancora non si è giunti a una definizione che metta d'accordo tutti. Qualcosa mi dice che anche il contributo mio e tuo non approderà ad alcunché di definitivo. Intanto è importante far notare che tutto questo interrogarsi intorno al concetto di libertà è una peculiarità occidentale. Non che altre culture non abbiano elaborato un pensiero articolato e, talvolta, complessissimo attorno a questo tema, ma è stato in occidente che esso ha occupato il ruolo centrale che conosciamo. Presso i Greci libertà significava essenzialmente 2 cose: essere esenti da condizione servile e godere dell'esercizio dei diritti politici. A cui si aggiungeva una terza prerogativa che, quando goduta, designava il massimo livello di libertà a cui un umano potesse auspicare: una condizione agiata che liberasse dalle angustie del lavoro e lasciasse l'uomo libero di occuparsi di arte, di poesia e di tutte le cose che nobilitano lo spirito. Questa mentalità è, tutto sommato, quella entrata con più forza nel comune sentire occidentale a tutt'oggi. Va da sé che queste sono coordinate generali dalle quali possono prendere le mosse iniziative di spiriti alti e arditissimi o trarre una confusa legittimazione condotte tra le più basse e volgari. Ci sarebbe poi da chiedersi cosa resta effettivamente di 2000 anni di cristianesimo e di tutta la dottrina incentrata sul concetto di libero arbitrio, ma, in linea di massima, la nozione è oggi più vaga e confusa che mai. Prendiamo 4 diverse tipologie umane, accomunate solo dall'uso costante e reiterato del termine "libertà": Silvio Berlusconi, un ex-partigiano comunista, un polemista anti-moderno alla Massimo Fini, un giovincello di quelli che okkupano, armato di bonghetti e sanpietrini. Chiediamo a ognuno di loro di argomentare quel concetto a cui ricorrono tanto estensivamente, e vedrai che emergeranno articolazioni talmente divergenti da far sorgere più d'un dubbio che si parli della stessa cosa. Vedrai anche che tutti e quattro potrebbero andare avanti per ore a elencare tutti i vantaggi della loro visione senza minimamente avvedersi delle macroscopiche fallacie, anche di ordine logico, che invece risultano immediatamente evidenti a tutti gli altri. In verità lo stato di libertà è un concetto mobile. Per un perseguitato politico libertà può semplicemente significare non essere ammazzato. Per chi non ha nulla, accedere all'indispensabile può indurre uno stato di euforia del tutto incomprensibile ad altri abituati a dare per scontato anche il superfluo. Per quanto mi riguarda non esiste sostanziale libertà in assenza di verità. Oggi viviamo immersi nella menzogna, e poco mi consola se tutti sono liberi di pippare coca come degli ossessi o di circolare conciate come prostitute della Cayenna. Il "vietato vietare" di sessantottina memoria ha fatto il suo sporco lavoro: ormai non c'è più bisogno neppure di reprimere il dissenso. Non c'è più dissenso, solo 'trasgressione'. C'è tutta una pedagogia, tutta una corrente di pensiero che troneggia dai Media, che avalla questo semplice concetto. Che libertà è sinonimo di sfrenatezza, che è bene, anzi è un Diritto, scritto con la maiuscola, non darsi dei limiti, mai. Purché non si esiga verità, non si voglia tornare padroni davvero del proprio destino, non si richiedano diritti veri che sono politici, economici e di civiltà. "Pensa a scopare": questa è, in estrema sintesi, la lezione di civiltà che ci viene oggi impartita. E io, come credo molti, mi sento libero in mezzo a certi concittadini come poteva sentirsi libero un europeo di 100 anni fa naufragato in mezzo ai selvaggi."

• Giunti all'ultimo atto, cosa aspetta all'Italia? Cosa si nasconde per Ianva in quelle tenebre verso cui viaggia l'occidente? Nel vostro precedente EP si avvertiva uno spiraglio di luce, ora sembra invece che il pessimismo abbia preso il sopravvento negando ogni possibilità di reazione...
  
  
  "Se lo sapessi godrei di doti di chiaroveggenza. Con IANVA non mi diverto a fare la Cassandra, cerco solo d'imbastire un ragionamento. Del resto ogni analisi realistica dell'esistente pare non lasci molto spazio all'ottimismo. È un fenomeno strano: per la prima volta, dall'avvento del pensiero moderno a oggi, il concetto di futuro non racchiude più, nell'immaginario generale, alcuna connotazione positiva. Ogni prospettiva auspicabile pare, di colpo, poco realistica. Il termine stesso non porta con sé alcunché di promettente, ogni smottamento che potrebbe causare un'accelerazione suscita allarme, ogni rassicurazione provoca un sentimento che si situa a metà strada tra divertito scetticismo e genuina avversione. Da questo punto di vista un salto di paradigma è già avvenuto e, per coloro che hanno retto fino a ora il timone, questo è un problema serio. Infatti viene meno il presupposto fondamentale su cui s'è basato fino a oggi il trionfo del liberal-capitalismo sugli altri competitori novecenteschi: la fiducia nel futuro. O, per meglio dire, nella realizzazione in un indefinito futuro delle aspettative per le quali ci viene richiesto di alleggerirci di sempre nuove 'zavorre' nel presente. Queste zavorre possono essere di volta in volta il 'posto fisso', il posto anche non fisso, la sovranità nazionale, una pensione decente e non sulla soglia della fossa, una ragione per andare in guerra meno ridicola e offensiva per la nostra intelligenza dell''esportazione di democrazia'... Se la sfiducia e la sensazione di essere in trappola si dovessero ulteriormente diffondere ed endemizzare si aprirebbero, credo, scenari imprevedibili. Credo anche che le forze che intendessero mantenere lo status quo potrebbero ricorrere a misure estreme. Ma questo almeno servirebbe a scrivere la parola fine su questa farsa ormai insostenibile che è diventata la democrazia occidentale, e anche i cervelli più torpidi si ritroverebbero al cospetto di una realtà semplificata. Brutalmente semplificata."

• Per finire, torniamo all'aspetto più pratico di Ianva: cosa bolle in pentola per l'immediato futuro? Ci saranno altre uscite, oppure vi concentrerete sull'attività live? C'è altro che vale la pena menzionare?
  
  
  "IANVA non è un gruppo che può suonare sempre e ovunque. Vuoi per la natura del suo repertorio, vuoi per l'indubbia 'pesantezza' di una struttura così numerosa in un'era in cui il palco standard è la pedana di un pub e la formazione tipo sono un duo con basi in laptop. Tuttavia suonare un po' più frequentemente di quanto s'è fatto finora sarebbe auspicabile. Peraltro colgo l'occasione per comunicare a eventuali organizzatori che non è vero che costiamo un occhio della testa, che esigiamo tre ore di soundcheck, che siamo dei piantagrane ed altre cose simili a suo tempo fatte circolare sul nostro conto. Per quanto riguarda il resto, sto buttando giù alcune idee e dopo l'estate le sottoporrò agli altri. Come sempre non ha molto senso indicare tempistiche e scadenze: ogni nuovo giro, dalla folgorazione iniziale al "taglio del nastro" finale, è un'avventura della quale non è possibile prevedere gli esiti. In fondo, il bello è proprio questo: IANVA non sarà mai un progetto di routine, né per chi lo fa, né per chi l'ascolta."

http://www.illevriero.it/ianva/

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