07-05-2020
KHOST
"Buried Steel"
(Cold Spring)
Time: CD (51:55)
Rating : 7
A poco meno di tre anni dal precedente "Governance", il duo britannico composto da Andy Swan (Final, Iroha) e Damian Bennett (Techno Animal, Carthage) torna - sempre rigorosamente per la Cold Spring - col quarto full-length, coadiuvato per l'occasione da una pletora di ospiti d'eccezione: Stephen Mallinder (Cabaret Voltaire, Wrangler), Eugene Robinson (Oxbow), Syan, Manuel Liebeskind, Daniel Buess (16-17, MIR) e Stephen Ah Burroughs (Tunnels Of Ah, ex-Head Of David). Contributi importanti per un lavoro - confezionato nel pregiato digipack a sei pannelli - che intraprende una strada differente da quella tracciata dal precedente opus, proseguendo sì nel solco di un doom metal industriale ormai tipico per l'act di Birmingham, ma stavolta con un suono ancor più ruvido, pesante ed opprimente, con una vocalità meno tagliente che vira verso il sepolcrale in maniera netta. Ne scaturisce un lavoro ancor più ligio ai dettami di un doom metal contaminato e sporco, in cui le dinamiche industriali si traducono sia nelle evoluzioni sonore più stridenti e noisy, sia in un drumming prevalentemente meccanico e macchinoso, come l'accoppiata iniziale "We Will Win"/"Blood Gutters 6x4x1" chiarisce in un lampo e come confermano episodi ancor più guitar-driven quali "Last Furnace" e "December Bureau". A distinguersi per idee e qualità è soprattutto "Night Air", con le sue spoken words tra effluvi industrial ed esplosioni doom, ed anche la più sofferta "Dog Unit" non è da meno, laddove "A Non Temporal Crawlspace" rompe gli schemi con il suo piglio tenue, mesto ed ambientale, a tratti interrotto da porzioni più ruvide. In mezzo a queste tracce, dalla durata usuale, figura una cospicua manciata di song più brevi in cui le spoken words poggiano su disegni sonori tipicamente industriali, fra le quali emerge la meccanica "Intravener", ripresa sul finale in un intrigante, notturno, suggestivo e decisamente creativo remix firmato da Mothboy. Di certo non mancherà chi avrebbe preferito un'evoluzione più vicina a dinamiche noise piuttosto che alla durezza chitarristica d'estrazione doom, ma i tratti distintivi che hanno reso Khost un nome di peso ci sono ancora tutti, oltre all'alta qualità sotto ogni aspetto (al netto degli incidenti tecnici che hanno minato parte delle registrazioni di "Buried Steel"), e la spinta creativa pare ancora decisamente lontana dall'essersi esaurita.
Roberto Alessandro Filippozzi
https://khostband.bandcamp.com/