26-01-2013
VANITY
"Occult You"
(Church Independent)
Time: (39:57)
Rating : 8
Una volta rimasti senza nulla da inventare ex novo, l'ibridazione fra stili differenti è stata senza dubbio la chiave di volta per andare oltre gli schemi dei principali filoni musicali, ma nonostante gli innumerevoli tentativi, sono davvero in pochi quelli che sono realmente riusciti a piegare al volere di un suono personale e libero da paletti di sorta influenze differenti, quando non addirittura 'storicamente conflittuali'. Questa rara abilità è l'arma in più dell'eccelso debutto dei Vanity, quartetto con base operativa in Italia, ma con in formazione il bravo cantante palestinese N ed il bassista svizzero Frances. Sbucati letteralmente fuori dal nulla, i Nostri centrano in pieno il bersaglio con un esordio sorprendente per maturità, magnetismo, lucidità e compattezza, ma soprattutto per l'innata capacità del combo di imbastire un sound che non è goth, non è metal, non è darkwave, non è rock e, al tempo stesso, è tutte queste cose assieme. Ma attenzione: non una sequenza di canzoni dove a turno ognuna ricalca più o meno marcatamente uno degli stili abbracciati, bensì un flusso di brani che fondono tutte le influenze del background dei Vanity in un sound trasversale e, soprattutto, personale nell'approccio (oscuro) ad ogni singolo dettaglio. In apertura il singolo "Sleeping Tears" sprigiona grande energia e pathos (due costanti nel suono della band) danzando fra echi goth, stacchi doom ed un refrain che sa di post-rock, mettendo in evidenza la versatilità di cui gode tutto l'album. Se momenti come la tirata e tesa "Ghosts" e la tagliente e serrata "The Wanderer" hanno tutto il potenziale per catturare l'attenzione dei metalheads più aperti di mentalità e, al contempo, non difettano di nulla se si tratta di sedurre il pubblico prettamente goth, "Pagan Hearts" alberga dalle parti del doom con grande passionalità, sfoderando poi un ritornello che farebbe impallidire i Nickelback. È tuttavia quando l'elettricità e l'irruenza vengono mitigate che si giunge ai picchi dell'opera: "Under Black Ice", priva di ritmi, dà i brividi col suo magnetismo tragico e sinfonico, mentre la title-track avvolge senza lasciare scampo col suo sognante incedere dallo squisito retrogusto shoegaze. Quando, oltre alla necessaria alchimia tra i musicisti, innegabili doti esecutive vanno a braccetto con un songwriting ispirato e vibrante ed una visione d'insieme ottimale, possono scaturire cose davvero ottime: è questo il caso dei Vanity, i quali, degnamente supportati da una produzione eccellente, ci regalano un esordio sorprendente che dona ulteriore lustro alla scena nazionale, da mettere al fianco di un'altra superba realtà come gli Spiral69. Se idealizzaste una sorta di super-gruppo con dentro Anathema, Joy Division, Katatonia e The Beauty Of Gemina, senza che in alcun frangente questo rimandasse palesemente ad alcuno di questi nomi, verosimilmente il risultato finale suonerebbe come i Vanity: scusate se è poco.
Roberto Alessandro Filippozzi
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