08-05-2012
TEATRO SATANICO
"Fatwa"
(Old Europa Cafe)
Time: (62:59)
Rating : 8
Continuando la strada intrapresa con "Black Magick Block" (uscito nel 2008 per la Steinklang), il Teatro Satanico si distacca dalle sperimentazioni ardite più recenti (vedi titoli come "Alma Petroli" e "Veneto") per dare vita ad una album dalla gestazione difficile, iniziata già nel 2008, ma che lo proietta verso quell'ampio pubblico che ha letteralmente divorato l'ultimo eccellente singolo "Gold In Blei". I componimenti più efficaci e immediati di questo nuovo capitolo trovano la spina dorsale in basi percussive potenti e orecchiabili, a cui vengono sottese linee melodiche elettrizzate, voci filtrate ed echi sintetici provenienti dagli anni '80: è così che prendono corpo i tre singoli mancati che aprono l'opera, e che non mancheranno di sbalordire chi segue il Teatro sin dagli albori. La vena sonora sperimentale rimane evidente, ma viene abilmente mischiata a strutture compositive vagamente pop generando tracce trascinanti come l'apripista "Allah Kebab", la luciferina "Adrian Andrew Woodhouse" e la glitch-oriented "God Told You To Do It". La circolarità ossessiva di un tema in stile DAF unito ad un'inquietante litania vocale è alla base della title-track, che ci addentra in territori più riflessivi segnati da una insistenza ciclica e sibillina, conclusa dalla reinterpretazione muscolare di "Baby Babalon", già apparsa in "Black Magick Block". Le tracce finali si fanno ancor più scarne e prive di ritmica, incentrate su suoni cerebrali e minimali come nel caso de "La Visione E La Voce", su cui svetta un cantato simile a quello di Ferretti, per arrivare poi al breve gioco di parole senza musica in "Dio Dio Dio Di Odio" e concludere con l'accoppiata in latino "Anus Dei" e "Veni Satan Lucifer", tra space-ambient anni '70 ed esplosioni di puro noise. "Fatwa", il cui titolo allude sia alla sentenza islamica che al movimento ecologista ATWA fondato da Charles Manson, è supportato anche da testi notevoli che uniscono ironia a tinte forti, classica carica iconoclasta, polemiche legate alla società contemporanea e qualche frecciata politically incorrect. Eccellenti anche la confezione in digipak e le illustrazioni interne, prese a prestito ancora una volta dal maestro Buttò. Devis e soci dimostrano di saper evolversi in maniera imprevedibile, senza ancorarsi mai a generi predefiniti. "Fatwa" rappresenta il loro titolo più affabile, senza però rinunciare alle tipiche sferzate industrial-elettroniche. Sorprendente.
Michele Viali