19-06-2020
IN RUIN
"Hallow"
(Heidenvolk)
Time: CD (42:01)
Rating : 7
Se escludiamo una raccolta di rarità ed inediti pubblicata in proprio nel 2016, gli americani In Ruin mancavano all'appuntamento con un nuovo album da oltre un decennio, tant'è che si attende il successore del debut "A Ghost To Be Forgotten" dall'ormai lontano 2008 (l'EP dello scorso anno "Waves Of Darkness" ne aveva solo proposto qualche brano in anteprima). Così come per il suddetto esordio sulla lunga distanza, anche stavolta è la Heidenvolk di Henryk Vogel (Darkwood) a pubblicare l'album in un essenziale quanto gradevole digipack, praticamente in concomitanza col live "casalingo" (vista la cosiddetta "pandemia") in download "Strange, Solitary Times". Orfani di Alex Hathaway (nella band fino al succitato debut album), Terry Collia (chitarre, voce, percussioni, synth) ed Alex Shields (basso, percussioni, piano) riuniscono anche stavolta un piccolo manipolo di ospiti coi quali danno vita alle dodici canzoni di questo atteso follow-up, in linea col suo predecessore per quanto attiene alle coordinate stilistiche di un neofolk che, sebbene suoni "meno europeo" rispetto alla media (fattore inevitabile, vista la provenienza del duo), getta comunque un ponte tra il folk statunitense e quello mitteleuropeo. "Crossroads" apre con la sua melodia grigia e mesta ospitando le spoken words di Richard Leviathan (Ostara), e mentre momenti come "Waters" ed "Hagalaz" sono esempi di una linearità comunque apprezzabile, sono i frangenti in cui figura il violino a risultare i più ricchi di pathos: la passionale "Saints & Ghosts", l'arioso e melodioso strumentale "Kysstu Og Fardu" (con Kim Larsen di :Of The Wand And The Moon: alla chitarra) ed "Heaven Weeps Still" (quest'ultima impreziosita dalla buona prova vocale di Kate Arcangeli), con ospite Grace Rodgers, e poi la drammatica "Reckoning" (con Abbey Taylor) e l'intensa title-track strumentale, di grande trasporto e dalle strutture memori di certo metal, con l'archetto retto da Natalie Frakes. Fra l'intimismo notturno di "A Poison Tree" e l'intensità della breve "As You Sow" e dell'evocativa "Lygar" fa capolino un'onesta cover di "Break Of Dawn" di Darkwood, già apprezzata un paio d'anni fa sul tributo alla band tedesca "Lied Der Kämpfer" (co-prodotto dalla Folkworld e dagli stessi In Ruin). Una lunga attesa adeguatamente ripagata da un lavoro sincero ed intellettualmente onesto che non ha la presunzione di riscrivere alcun dettame del neofolk come lo conosciamo, da assaporare nella speranza che il duo di Detroit non ci faccia attendere troppo prima di replicare col terzo album.
Roberto Alessandro Filippozzi