20-09-2012
THE HIRAM KEY
"Amerikafka"
(Echozone/Masterpiece)
Time: (58:55)
Rating : 5.5
Primo lavoro per questa superband inglese fondata da Gary Clark (ex-Nosferatu), accompagnato da Darren Bottrill (ex-Cureheads), Irish Dave (dai Killing Miranda), Roi Robertson e Belle Star. Il 14 febbraio scorso la Echozone ha dato alle stampe anche il nuovo EP "Horocrux", ma pare che la vera summa del sound e del pensiero di The Hiram Key risieda in questo "Amerikafka", uscita su cui si pone molta fiducia. È un piacere veder rinascere dalle ceneri di act rinomati un nuovo ambizioso corso, soprattutto se la biografia che accompagna il promo salmodia orgogliosi intenti, primo fra tutti quello di differenziarsi dalla scena goth corrente, più estetica che celebrativa. È intento di Clark riportare in auge l'essenza del goth-rock/new wave fondato dai Cure o dai Sisters Of Mercy, nominandolo baluardo nel suo genere, in contrapposizione ai prodotti modaioli di quest'ultimo decennio. Un'impresa ardua, soprattutto se si tiene conto che Clark e i suoi qui vengono a mancare dell'ingrediente fondamentale: la personalità. "Amerikafka" scorre, ma imbarazza per la sua estrema presa di posizione. Se si escludono davvero un paio di episodi, come la title-track o l'ottimo singolo "Happy Man?" (da soli insufficienti a strappare la sufficienza), il resto non risveglia nemmeno la nostalgia, e cade in una emerita scopiazzatura dei grandi. Primi fra tutti Robert Smith e soci, praticamente emulati in ogni sfumatura (quasi tutto l'album), ma anche Bowie ("What Kind Of..." cosa sarebbe, una nuova "Life On Mars"?) e la creatura di Andrew Eldritch (stessi echi anthemici di "This Corrosion"). Davvero sopra le righe questo amore di The Hiram Key per gli anni gloriosi, dove la ricerca dell'originalità, obbligatoria se si debutta con mezzi significativi e tanta esperienza alle spalle, è in tutto e per tutto soppiantata dalla mera emulazione. Le biografie dei componenti facevano sperare in meglio, e alla fine del lavoro bisogna accontentarsi di rivedere i Cure allo specchio, riflessi con qualche presuntuosa interferenza. Un dischetto, nulla di più. Divertente per alcuni, ma davvero non divertito per i musicisti stessi, che speravano in una rifondazione del genere goth. Si salvano solo i dipinti della cilena Jessica Suarez nel colorato booklet (dove svetta anche della nota simbologia massonica nel logo della band). Per risanare un genere, meglio rivisitare il passato con buona presa di coscienza di ciò che è il presente. Nella stessa scuderia, per intenderci, fanno meglio i D.O.C. o gli Alien Hand Syndrome.
Max Firinu