06-04-2010
LEVINHURST
+ JustLikeCure
Roma, Blackout, 19/03/2010
di Federico Francesco Falco
foto Federica Del Gobbo
Setlist JustLikeCure:
Push
Sinking
Why Can't I Be You?
Lovesong
Pictures Of You
Just Like Heaven
From The Edge Of The Deep Green Sea
Lullaby
Friday I'm In Love
Setlist LEVINHURST:
(New song)
(New song)
Play For Today
Another Day
Another Way
Hope
Sorrow
Sandman
Mau Mau
Empty
Subway Song
Fire In Cairo
(New song)
(New song)
Accuracy
Boys Don't Cry
10:15 Saturday Night
Killing An Arab
BIS:
Jumping Someone Else's Train
Griding Halt
Three Imaginary Boys
10:15 Saturday Night (reprise)
Chissà che effetto ha fatto a Lol Tolhurst ritrovarsi nuovamente in un locale più raccolto, come nel periodo in cui tutto era ancora da costruire per la band che lo avrebbe poi reso famoso... girare il luogo in cui ti esibirai senza trovare file chilometriche, banchetti del merchandising e quant'altro. Una sorta di ironico gioco dell'oca con tanto di casella "torna al via" dopo che con i dadi credeva di aver fatto un bel po' di percorso. E al Blackout infatti nemmeno c'è una vera e propria coda di gente al cancello, se non 5/7 minuti prima della vera apertura. Solo gruppi sparsi di persone che dialogano serafici delle loro curiosità riguardanti il concerto e sul passato dei Cure. Loro. Moniker così abusato a prescindere che durante la serata sembrerà aleggiare implicito in ogni spiffero e centimetro dell'accogliente locale, che fa esordire gli spettatori tra le note del "One Night in Paris" dei Depeche Mode. L'interno sembra rivestito d'ombra per l'occasione. Con tanto di letto gotico/barocco accessoriato di modella a tema e truccatrice professionale di make-up post/punk poco più la. Mentre la sala del concerto mostra la strumentazione della tribute band che aprirà la serata, i JUSTLIKECURE. C'è da sorridere a notare, ad esempio, che il drum-kit di Matteo sia composto decisamente da più pezzi di quelli di Lol Tolhurst. Questo riflette ovviamente anche nell'economia della loro esibizione: un omaggio sincero di una quarantina di minuti di durata a quello che effettivamente ha rappresentato la band di Robert Smith nel corso delle due decadi fondamentali, equilibrando bene i classici tre singoli dell'era del masterpiece "Disintegration" e brani più ricercati come l'esperimento dub/rock "Sinking". A far spuntare un sorriso a mò di Stregatto agli appassionati. Anche dal punto di vista estetico, sembra di trovarsi dinnanzi ad una sorta di 'best of' della macchina del tempo: l'ottimo vocalist/chitarrista è praticamente il cosplay perfetto del Robert delle annate di "The Head On The Door" e "Kiss Me Kiss Me Kiss Me"; Daniele incarna una sorta di Gallup del "Wish" tour, e non si fanno mancare nemmeno la seconda chitarra, che di Porl Thompson ha persino il tatuaggio/disegno a coprire parte della testa. L'addizione di questi elementi dona alla platea una performance molto godibile, chiusa da una "Friday I'm In Love" suonata proprio nel giorno che le compete. Peccato che dalla setlist si intravedano un paio di tagli, ma il gesto dell'olorogio del bassista è abbastanza eloquente. Con grande sorpresa da parte mia, l'intero set di due tastiere e un synth abbandona il palco senza essere sostituito da qualcos'altro. Resta una formazione classica a rombo con batteria/basso/chitarra. Le luci scivolano via e il set è preda di una foresta proiettata (vi affiora mica qualche deja-vù?), mentre i LEVINHURST salgono sul palco. Dalle prime note, la sezione ritmica la riconosci subito. Scarna e diretta fino all'osso, come fossero stati congelati negli ultimi 17 anni (il loro progetto parallelo Presence naufragò dopo un disco, nel 1993). Michael, impassibile come trent'anni prima nel suo angolo (ma con un leggio a fargli compagnia), scambia cenni di intesa al suo compagno musicale di una vita, Lol, seduto dietro alle pelli, ma vero protagonista della serata. Gli sguardi son tutti indirizzati verso quel 'ragazzo immaginario' che a lungo ha condiviso gioie e dolori con Mr. Smith. La sua presenza in fin dei conti vanifica abbastanza i clichè gotici che si eran creati nella serata, perchè fondamentalmente è rimasto il dolce buffone di corte di video come "Let's Go To Bed", sempre pronto al sorriso, alla battuta di spirito, ad introdurre brani al microfono con quell'aria un pò stonata e bonacciona. Simbolo di quel 'do it yourself' che contraddistingueva i musicisti imperfetti in epoca darkwave. Vengono presentati una manciata di nuovi brani, nel tiepido feedback degli appassionati. Perchè in realtà il problema principale di essi non risiede nel songwriting, ma dal fatto che gli arrangiamenti convenzionali così spogli rendano i brani un pò simili tra di loro. Un alternative rock ove la voce un pò soul/r&b della consorte di Lol, Cindy Levinson, non incide particolarmente da arricchire i contenuti, risultando alla fine una sorta di comparsa/presentatrice/ballerina di tre musicisti. Già, perchè se abbiamo già speso un pò di parole su due di loro, c'è anche da considerare che il semisconosciuto Eric Bradley regge il palco veramente bene. Sia musicalmente, col suo appeal un po' psichedelico che dà una buona spinta ai brani, sia dal punto di vista della presenza scenica: una sorta di damerino anni 50 con pose spiccate da street rocker. È futile farvi immaginare che il pubblico si fomenta più che altro sulle cover storiche, partendo da una versione particolarmente intensa di "Play For Today", con tanto di coro dei fan a mimare le note della chitarra. "Subway Song" imbevuta di note lisergiche è vestita di maggior inquietudine, "Accuracy" si ritrova un groove plasmato in maniera ancor più demenziale. Verso la metà del concerto le idee si fanno chiare, innanzitutto sul fatto che saranno sì e no 9/10 le persone che in sala han sentito anche un solo pezzo dei Levinhurst prima del concerto (e in quel numero, badate bene che sono inclusi anche i roadies e la band sul palco), ma soprattutto è ben chiara la scelta che sacrificare tutto l'appeal elettronico del progetto probabilmente è stato a vantaggio di una line-up più rock che potesse reggere alla grande le cover, che ripropongono quasi completamente "Three Imaginary Boys" . E quel volpone di Lol fa centro calibrando bene la scaletta: come la più calcolatrice delle amanti, sa bene quel che realmente interessa al pubblico/partner, e se all'inizio del set concede solo un paio di cover, poi lentamente la sua generosità tende ad aumentare, ed al pari di ciò, la folla cresce nel suo entusiasmo dirompente. Giungendo al culmine con una tripletta sparata a mò di raffica di mitra "Boys Don't Cry"/"10:15 Saturday Night"/"Killing an Arab" . Durante il secondo pezzo di tale trittico Cindy si ritrova con un problema al microfono, ma è come se nessuno si fosse minimamente accorto dell'accaduto, visto quanto il coro dei fans la stesse sovrastando già dal pezzo precedente. E l'assolo Hendrixiano è un autentico detonatore. Nell'encore la festa, un nuovo tris d'assi vien calato dall'abile mano della band, che insospettabilmente mette in gioco anche la rarità "Jumping Someone Else's Train", in pieno pathos. Oramai l'adrenalina di Lol è così alta che non riesce a restistere più nemmeno lui alla tentazione di risalire sul palco per il secondo encore, nonostante ammetta che in realtà i brani sono davvero finiti. Tanta è però la voglia che l'attacco della reprise di "10:15 Saturday Night", stavolta senza guasti tecnici, scatta veramente spontaneo. Per poi salutare commossi il pubblico. Tra chi va via e chi resta, si scorge un tavolino adibito a stand, dove un roadie quasi si vergogna a disporre 8 CD autografati, senza prezzo nè sticker o quant'altro. Ne avessi scattato un fermo immagine, sarebbe stata la sintesi perfetta delle intenzioni di Lol e Michael: quello di essere ripassati per un tour con l'intento di riassaporare l'affetto di vecchi e nuovi fans una volta ancora. Quasi come un vecchio amico, che dimentica volontariamente qualcosa a casa per poi ripassare a trovarti. E loro si mostrano cortesi e disponibili al pari, tornando poi verso i fans per firmare autografi e immortalarsi con chi sogna e continuerà a farlo, grazie a mondi emozionali che hanno contribuito a creare. Mi vien da pensare che magari se Robert si fosse unito a tempo pieno ai Banshees, oggi avremmo trovato anche lui qui. Ma questa è solo un'ipotesi, immaginaria come quei tre ragazzi del 1979.