24-11-2013
FRANK ROTHKAMM
"K5"
(Flux Records)
Time: (33:33)
Rating : 7
Non è un caso, forse, che la durata del CD sia così precisa, trentatre minuti e trentatre secondi. Al di là di qualche considerazione mistica (anni di nostro Signore e affini), viene spontaneo associare questa 'durata' alle pratiche tipiche di certo math rock (il rock strutturato secondo rigidi calcoli matematici). In realtà di rock qui c'è nulla, ma sicuramente la durata così precisa e l'artwork molto Kraftwerk-style danno un senso di freddezza e precisione che poi si riscontra anche fra le righe dei brani. Frank Rothkamm è artista di avanguardia senza se e senza ma. Con una forte formazione classica alle spalle, ha spaziato fra i generi, dividendo il proprio talento fra mille progetti e collaborazioni, pur rimanendo sempre fedele al motto di fare arte per il puro piacere di farlo, senza tornaconti economici. Anche questo "K5" non si discosta dalle linee guida dell'autore tedesco. La prima traccia, "ID 17", si apre tra i ronzii del synth, così come "Ancient Mariners", con echi del romanticismo di Coleridge. I riverberi usati da Rothkamm proseguono in "ID18", mentre "Dead Metal" rimanda alle avanguardie elettroniche dei primi '70. Le atmosfere si fanno più rarefatte in "Spirit Level", fino a trascendere nella conclusiva "Threshold Magnitude". Il mondo di Rothkamm è sintetico, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Difficile pensare di sentire uscire arpeggi acustici dalle casse del proprio stereo (o MP3, ma è meglio lo stereo...) mentre gira un CD di questo artista. Tuttavia le sue strutture, così perfette e lineari, ricordano quelle della musica classica: la bellezza formale della sua musica, per chi apprezza l'elettronica, è sempre stato il suo marchio di fabbrica, e anche questo "K5" (che non per nulla è il nome di un modello di sintetizzatore della marca giapponese Kawai) non sfugge a questo cliché. Il discorso cambia se si considera l'intero corpus della sua opera. La mancanza di grosse novità nel songwriting alla lunga può diventare pesante e inficiare le buone intuizioni sparse qua e là. I suoi lavori infatti, se ascoltati in serie, denunciano una certa ripetitività che non aiuta a seguirne lo svolgimento né, spesso, ad individuarne le ottime cose che vi si possono trovare. Crediamo però che ciò sia limite e pregio allo stesso tempo, perché ha consentito a questo autore di portare avanti un discorso che, fra collaborazioni, lavori solisti e con gli A23h, ormai prosegue ininterrottamente dal 1986. Chiedere o ipotizzare un cambiamento radicale nella sua arte è pressoché impossibile. Gustiamocelo quindi così com'è, senza pensare troppo al passato.
Ferruccio Filippi