25-06-2011
SAINTS OF RUIN
"Glampyre"
(Echozone/Masterpiece)
Time: (45:06)
Rating : 5.5
Avevamo lasciato i Saints Of Ruin un anno fa, all'uscita dell'acerbo album d'esordio "Nightmares". Avevamo parlato di un sound che si poteva descrivere come 'glam-goth': niente di più azzeccato, dal momento che la nuova release si intitola "Glampyre", una sola parola che riassume perfettamente le coordinate musicali del quartetto californiano. Ci eravamo stupiti, viste le mediocri qualità tecniche e compositive, di come potessero vantare un così alto numero di ascolti giornalieri su Myspace; ci tocca confermare come la presunzione degli esordi non sia diminuita (qualcuno mi spieghi come fanno ad avere quasi gli stessi ascolti di colossi come Cure o Depeche Mode... i trucchi per manipolare gli ascolti esistono eccome, evidentemente...). Eppure già nel precedente "Nightmares" c'era una luce al fondo del tunnel che ben poteva far presagire, e, a dirla tutta, in questo nuovo album si notano dei discreti progressi nel songwriting e nella produzione (pur rimanendo la proposta della band molto semplice ed elementare). L'opener, nonché brano che dà il titolo al disco, fa ben sperare, immediata ed accattivante nel suo incedere maestoso e deciso, in linea con alcune produzioni degli Inkubus Sukkubus. L'impatto maggiormente rock rispetto al passato si evidenzia anche con "Fire", dove chitarre distorte e voci filtrate la fanno da padrone. Anche in questo album, come nel precedente, troviamo poi una cover come terza traccia: in questo caso è "Rain" dei Cult, che effettivamente si avvicina allo stile della band. Poi, tra vari plagi e clichè, si giunge alla fine del disco con la consapevolezza che un piccolo passo avanti è stato fatto, ma che sicuramente questo "Glampyre" non aggiunge nulla di nuovo al goth-rock che ascoltiamo da trent'anni a questa parte, ed anzi, ne ricicla tutti gli elementi più kitsch e scontati, sia nell'immagine, sia nella proposta musicale, sia nei testi, questi ultimi decisamente scontati ed elementari, in grado di far breccia solo nei cuori dei giovanissimi intenti a cavalcare l'onda del neoromanticismo alla "Twilight Saga". Pur partendo dal presupposto che gli intenti della band sono decisamente commerciali, sconcerta quanto la musica dei Saints Of Ruin risulti prevedibile: a parte la piacevole title-track, gli unici esigui bagliori di interesse si trovano nell'intermezzo di "Father Vengeance", nel refrain di "Labyrinth MMXI" o nel catatonico finale di "The Son" (decisamente troppo simile a "The Same Deep Water As You" dei Cure), ed anche questa volta ci tocca evidenziare come l'unica forza trainante del quartetto sia l'evocativa voce della cantante Ruby Ruin. La musica di un certo spessore è tutta un'altra: tipico disco 'usa e getta' che può sedurre ai primi fugaci ascolti, ma che inesorabilmente palesa tutti i suoi difetti quando lo si inizia a sviscerare nelle varie componenti. Se gli americani adorano questo tipo di proposte, buon per loro: noi ci dissociamo.
Silvio Oreste
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