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Room 107

13-12-2010

ANATHEMA

+ The Ocean + Petter Carlsen

Cover ANATHEMA

Estragon, Bologna, 11/11/2010

di Nicola Tenani

foto Nicola Tenani

Setlist ANATHEMA:

Deep
Pitiless
Forgotten Hopes
Destiny Is Dead
Empty
Lost Control
Balance
Closer
A Natural Disaster
Judgement
Temporary Peace
Flying
Thin Air
Summernight Horizon
Dreaming Light
Everything
Angels
Presence
A Simple Mistake
Get Off Get Out
Universal
Hindsight
Are You There
One Last Goodbye
Fragile Dreams

Arrivato all'Estragon mi accodo attendendo la convalida dell'accredito, e come sempre cerco di captare gli umori, le aspettative: silenzioso e defilato, mi piace essere un orecchio teso all'ambiente, perché è fondamentale capire l'humus che mi attenderà poi sotto lo stage. In questa situazione ho trovato l'amalgama di partenza certamente complessa, perché le stelle della serata (metafora in una notte nuvolosa) sarebbero stati gli Anathema, cult-band britannica di difficile 'archiviazione' e non semplicisticamente inquadrabile sotto un unico aspetto. "...Ecco a voi il live di una delle band regine del doom metal!..", "...Si esibiranno all'Estragon i grandi rappresentanti del depressive metal britannico..."... Questi erano alcuni slogan trovabili in rete nei giorni precedenti la data degli Anathema, e se il loro compito fosse stato in partenza quello di illuminare le menti di chi nel tempo ha lambito ma non approfondito la conoscenza con i Cavanagh, credo sarebbe stato arduo portarli al locale del diavoletto beffardo (quanto mi piace definire così questo posto e quanto mi piace in verità l'Estragon stesso, con la sua capiente superficie ben illuminata ed amplificata). Si entra in un gruppetto sparuto, ci sono tre show cui assistere, e quasi subito PETTER CARLSEN, solo con la sua faccia pulita di norvegese che vive nel nulla (inteso con i parametri dei frustrati figli delle metropoli...), con la sua chitarra così ben plettrata ed accarezzata nella sua mezz'ora di gloria, solo con sé stesso e la sua voce onesta e sincera di chi songwriter lo è prima nel cuore e poi sul palco, il Nostro alla fine la solitudine l'ha gettata per far posto agli applausi. Palco e transenne come sempre, ma di fronte a performance di grazia minimale e folk intimista come questa ci sono gli spiriti di chi entra in sinergia con l'artista e vola al di là dei contesti, al di sopra delle barriere fisiche per accompagnare, entrare in simbiosi con la poesia dell'artista, star lui accanto con la sincerità degli applausi autentici; le grida, gli urli sono relegati ai momenti successivi, ora è solo una questione di cuore e la comprimiamo per donare in cambio al norvegese un'energia positiva, una luce di reale coinvolgimento emotivo, perché lui è innanzitutto la principale delle esigenze da ricambiare: Petter è stato sincero. Non passa molto tempo dalla fine del piccolo show folk di Carlsen che subito, in una serata dal carnet ricchissimo, tocca ai THE OCEAN, e qui non posso dilungarmi su ciò che non è mia competenza specifica, nel rispetto di chi scrive con perizia e passione in ambito metal; non sono qui per loro, ma li onoro cercando di fotografare ciò che mi è possibile tra i loro voluti bui scenografici, nelle stasi del doom dronico e sinfonico in attesa dell'esplosione delle luci, della smoking-machine che ha vomitato tonnellate di nebbia, nelle stroboscopiche che hanno segnato tutta la violenta nevrosi delle deflagrazioni di chitarre e voce growl e impetuosa. Progressive doom metal è stata la definizione di un ragazzo dall'aria molto metal-saccente, e tuttora mi chiedo cosa intendeva: se io gli avessi nominato generi come il teuto-folk sinfonico, forse sarebbe scappato cercando un prete esorcista, ma nella gara 'classificativa' senza nemmeno Linneo presente, una cosa mi è sembrata chiara: che il metal dei The Ocean, la cattiveria dei berlinesi sul palco, non fosse figlia del metal canonico ma di quegli anelli del passato che si chiamavano Anthrax o Metallica, Slayer o tutti quelli che hanno mescolato anarchie punk con corazzate di suoni metallici, un hardcore contemporaneo e brutale, e se qualche figlio del metallo mi legge e si scandalizza ,chiedo lui la più grande venia che si possa concedere in clima pre-natalizio. Ora gli ANATHEMA, e forse nemmeno Linneo (grande classificatore della natura nel Settecento svedese) avrebbe reso idee tangibili del suono dei fratelli Cavanagh. Due situazioni non opposte ma conciliabili: una prima parte dove donare il passato, la propria storia, e una seconda dove concedere regno all'album nuovo, un full-lenght stupendo che li avvicina ai nostri ambiti, o per lo meno a quelli che, conciliando doom, progressive, psichedelia riscontrabile soprattutto in certi Pink Floyd della metà degli anni '70 e un post-rock che in sé racchiude sinfonia eterea e tristezza malinconica, creano l'alchimia che "We're Here Because We're Here" ha determinato:, per un insieme di consensi su più fronti della critica musicale. Venticinque brani sono un dono ancor prima di essere un concerto, e forse qualcosa andava sfrondato, nonostante fosse ipnotico lasciarsi sedurre dalla tecnica di chitarra di Daniel e Vincent Cavanagh, dal basso del terzo fratello, Jamie, o dalle tastiere perfettamente entrate in simbiosi con i mood evocabili (davvero spettacolare la presenza di Les Smith). Perfetta anche la ritmica di una batteria di non facile gestione per chi, abituato a lande di velocità e tecnica, ora deve calarsi negli abissi dell'animo e cercare tempi difficili, ritmi anche soffocati ma presenti, territori governati da piccoli battiti di bacchetta sui charleston o sui tom, e John Douglas in questo è stato maestro. Peccato non potervi fornire più documentazioni fotografiche dei musicisti alla tastiera e alla batteria, ma la smoking-machine - ripeto - è stata la grande protagonista di quell'11 novembre, creando un forte 'rumore' atmosferico traducibile in impossibili shoot delle retrovie del palco. Venti anni che in una notte si sono tradotti in un lungo percorso in cui "Empty", "Closer" o "Deep", applauditissimo brano d'ingresso, hanno reso felici gli amanti degli Anathema di fine 90s; io attendevo, e sono stato lautamente ricompensato, i nuovi brani, così profondi, così avvicinanti allo spirito di quel Duncan Patterson che, prima con Antimatter ed ora con Iòn, ha convogliato la sua energia creativa su soundscape profondi ed eterei dopo lo split dalla band inglese. Anche i Cavanagh, nella maturità di un cammino in progressione, non si riciclano ma esplorano, e lo fanno con una dovizia ed un pathos più sinfonico ma non per questo meno intriso di velluti, substrati simili ai tappeti di foglie che in questi giorni di fine novembre potete calpestare nelle strade, tra i parchi abbandonati dal sole e dai bimbi. Questi sono i nuovi territori degli Anathema: quelli dell'anima vagabonda verso l'ignoto, un nulla da riscrivere. Potrei citare ogni singola traccia che mi ha emozionato, ma la setlist vi basterà per approfondire o confermare i miei stati d'animo: ci sono le malinconie (anche tecniche di due chitarre felici) dei Sigur Ròs, e c'è la bellissima voce di Vincent, che in quella di Lee Douglas (sorella del batterista in un tripudio di nepotismi, in questo caso però fantastici!) ha trovato la spalla ideale. Vincent, anche dal vivo, ha un timbro particolare che sa dosare voce e tecnica diluendosi nel suono, e Lee è la musa presente, la parte eterea di una band pronta a guardare ai prossimi vent'anni con le spalle robuste ed i plettri affilati. Usciamo dall'Estragon dopo due ore, nonostante in verità l'affluenza non fosse così corposa, ma usciamo convinti che è fondamentale esserci quando un biglietto non è un download, ma uno dei pochi momenti in cui la musica va pagata. Essere convinti da ciò che si è visto è fondamentale perché, anche quando la situazione generale economica ed i problemi del quotidiano ci portano a redigere vere e proprie manovre finanziarie di sopravvivenza, la cultura non è secondaria a nulla, la musica è il cibo con cui gli Dei sono stati amati, con un dono (in greco Anathema...), e ci ricambia con il potere delle loro creature più belle: le muse.