05-09-2011
THE PAIN MACHINERY
"Surveillance Culture"
(Complete Control Productions)
Time: (52:04)
Rating : 7
Già con la corposa release introduttiva "Auto Surveillance" si era capito che, dopo qualche tentennamento iniziale (un disco roccioso come "Urban Survival" pubblicato dopo quello che si riteneva essere l'EP della svolta, ossia "Total Recall"), il duo svedese era ormai pronto ad abbandonare la pur convincente e granitica electro-industrial del passato in favore di un sound più scarno, 'in your face' ed in linea con la prima grande ondata EBM europea, a partire dai capostipiti Front 242. E questo sesto album, con la sua grafica retrò e gli elogi pubblici ai vecchi synth, non lascia alcun dubbio al riguardo, recuperando l'estetica post-punk dei primissimi 80s (e le tematiche sociali, aggiornate all'era di facebook) con un forte impatto 'garage', come tendono a sottolineare anche le note ufficiali. Proprio l'impatto, immediato, muscolare e senza fronzoli, è il perno su cui oggi ruota l'intero e rinnovato concept del duo, che torna indietro sulle proprie stesse tracce (Anders Karlsson, membro fondatore incaricato della parte musicale, sperimenta con l'elettronica fin dagli anni '80) con un suono affine ad un passato che ancora in molti desiderano preservare e perpetuare, soprattutto dalle parti della Mitteleuropa. Quello che però eleva il duo al di sopra di tanta spietata concorrenza (specialmente tedesca) nel revivalismo EBM è la versatilità, che permette ai Nostri di confezionare un lotto di canzoni dirette, variegate, ben strutturate e scorrevoli dove ovviamente non viene reinventato alcunché, ma se non altro la snellezza del sound non scade nel monocorde, e fortunatamente nemmeno i cantati di Jonas Hedberg, per quanto a tratti sin troppo debitori dei succitati padri ispiratori. "Grinder" e le hit "Hard Cash" ed "Armed!", tutte già saggiate sulla precedente uscita, suonano ancora più coinvolgenti nelle versioni album, e ben si affiancano a momenti di spessore come la serpeggiante e sussurrata "The End Game", l'incalzante e groovy "Hate Me Now" e la conclusiva "Moving Walls", inquieta e scura col suo finale di grande intensità. Tutto l'album gode di una tangibile solidità, esaltata dal groove sprigionato da bassline cui è impossibile resistere, e fra netti rimandi ai maestri di cui sopra ("Hell") e retaggi industriali che restano duri a morire ("Acid Breakdown") l'ascolto risulta più che godibile, fermo restando come ormai non vi siano più dubbi su quale possa essere il target di pubblico: se 'old-style' vi suona bene, troverete nei The Pain Machinery dei validi interpreti di un suono che, talvolta, sa conservarsi egregiamente, finanche con una certa onestà.
Roberto Alessandro Filippozzi
http://www.thepainmachinery.com/