Articolo di Micromega che condivido parola per parola. Incomincio a essere stufo delle manifestazioni pacifiche (come quella di sabato, a cui ho partecipato) che non portano a niente. Forse, chi vive la mia situazione dovrebbe adottare metodi un po' più forti!
Giovani, pazienti e disoccupati. Fino a quando?
Sono soprattutto i giovani ad aver pagato il prezzo di questa crisi. Giovani dotati di una “pazienza infinita” rispetto a quella dei loro genitori. Non è venuto il momento di arrabbiarsi un po’?
di Emilio Carnevali
L’altro giorno, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa, Erri De Luca ha accennato alla differenza fra i giovani di oggi e la sua “generazione rivoluzionaria”. Quest’ultima descritta come disobbediente agli adulti e totalmente sprovvista di pazienza, mentre i giovani di oggi sarebbero molto obbedienti e dotati di una “pazienza infinita”.
C’è da precisare che quando De Luca evoca il periodo della ‘scarsa pazienza’ allude a qualcosa di più di una semplice, genuina vivacità mista a creativa irrequietezza giovanile. Qualche anno fa, in un’intervista sul Corriere Magazine, Sabelli Fioretti aveva ricordato allo scrittore – con ironica malizia – i suoi trascorsi post-sessantottini: “Tu diventasti capo del servizio d’ordine di Lotta Continua di Roma, un servizio ai limiti della legalità…”. E lui per tutta risposta: “No, no. Un servizio completamente dentro all’illegalità. Lotta Continua era tutta illegale, l’illegalità era pratica diffusa”.
Ora, prescindendo da qualsiasi considerazione sul clima e le conseguenze di quegli anni, si può forse concordare tranquillamente sull’eccesso di pazienza della generazione di oggi. D’altra parte non occorreva certo la lettera di Pier Luigi Celli – il quale ha avuto il merito di rilanciare un tema che meriterebbe ben altra considerazione nel dibattito politico – per riflettere sullo “scippo di futuro” subito dalle giovani generazioni dell’Italia a cavallo del nuovo millennio.
Finanche la recente crisi economica si è accanita con particolare severità proprio sui più giovani, a dimostrazione che, come recita il titolo di un recente libro dell’economista Tito Boeri, “la crisi non è uguale per tutti”. Il rapporto Istat sulla forza lavoro nel II trimestre del 2009 certifica che l’incremento della disoccupazione (passata dal 6,7 per cento del secondo trimestre 2008 al 7,4 per cento nel secondo trimestre 2009, per giungere – con gli ultimissimi dati di ottobre 2009 – fino all’8%) è dovuto soprattutto al forte calo dei dipendenti a termine (-229.000 unità nel II trimestre 2009 rispetto al II trimestre 2008) e dei collaboratori coordinati e continuativi e occasionali (-65.000 unità), oltre che degli autonomi (-145.000 unità).
Sono soprattutto i giovani ad essere assunti con questi contratti e sono dunque loro ad aver pagato il prezzo di questa massiccia espulsione dal mondo produttivo. I dipendenti a tempo indeterminato sono invece cresciuti di 61.000 unità, ma tra i neoassunti non ci sono generalmente dei giovani, i quali rappresentano un investimento in capitale umano che, in tempi di crisi, le aziende non sono certamente dispose a fare. Soprattutto vista l’esorbitante offerta di lavoratori qualificati che caratterizza attualmente il mercato. Non è un caso se la disoccupazione giovanile in Italia è pari 26,9 per centro, contro il 20,6 della media europea (rilevazione ottobre 2009).
Anche i più “competitivi”, i lavoratori della conoscenza impiegati nei centri di ricerca delle grandi aziende internazionali, non possono certo dormire sonni tranquilli. Dopo aver chiuso da tempo i centri di produzione nel nostro Paese, molte multinazionali (tra le quali Nokia, Motorola, Ericsson) stanno ridimensionando anche i centri di ricerca. È il destino di quei Paesi divenuti “colonie industriali”: è possibile che in questi Paesi – ha spiegato Luciano Gallino in un saggio di qualche anno fa sulla scomparsa dell’Italia industriale – “operino unità produttive controllate da imprese straniere, capaci di assicurare localmente occupazione e reddito.
Ma una tale situazione implica che tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti che entrano nelle case e strutturano la vita delle persone, saranno prese altrove. Con il presupposto che i relativi costi economici, sociali e umani ricadranno sul Paese ospitante”.
Motivi per arrabbiarsi un po’ ai giovani non mancherebbero. Magari senza cantilene vittimistico-riventicative dell’“io, in quanto gggiovane…” e magari senza usare come titolo di vanto quello di non essersi mai occupati di politica e non essere mai entrati in una sezione di partito (come si legge a volte nei blog della cosiddetta “società civile”). Diamoci una svegliata.
(1 dicembre 2009)